Nel 1972, all’età di soli 17 anni, sale al trono del Bhutan Jigme Singye Wangchuck. Il giovane sovrano decide di viaggiare di villaggio in villaggio per chiedere ai suoi sudditi cosa sia per loro la cosa più importante. Tutti, instancabilmente, rispondono: la felicità.
Così, il re decide di concentrare i suoi sforzi affinché nel suo regno non si giudichi il benessere a partire da parametri esclusivamente economici, ma tenendo conto del sentimento della felicità: nasce il FIL, la felicità interna lorda.
A partire da questa storia che diamo per vera (che ci ha permesso di ripassare un po’ di geografia… Perché, tu lo sai dov’è il Bhutan?!), ci siamo lanciati, con il gruppo di adolescenti dell’associazione Action Josaphat, alla ricerca della felicità.
Ciascuno di noi ha scelto ciò che più lo rende felice e poi ci siamo catapultati in un’immaginaria isola deserta, per mettere alla prova i nostri beni preziosi. Lo smartphone, tanto gettonato, è stato il primo a capitolare, senza elettricità e senza wi-fi, da spento, non è buono neanche a fare da spazzola. Qualcuno lo ha usato, con una certa soddisfazione, come piattino design. La bottiglia di vodka, che ci aveva tanto scandalizzato all’inizio, si è rivelata un ottimo disinfettante, antidolorifico e calmante. E ci ha anche salvati, perché grazie al messaggio buttato in mare, ci sono venuti a recuperare dalla nostra immaginaria isola deserta. L’amicizia e l’amore hanno subìto non poche avversità ma sono usciti vincenti. Alex, per cui dormire è la cosa più bella al mondo, è stato conciliato dal rumore delle onde del mare sulla risacca, ha sofferto poco la fame ed è stato portato in salvo prima che si rendesse davvero conto dell’accaduto.
È stato un lavoro di ricerca divertente e altrettanto lo è stato il risultato scenico. Un’idea semplice ma una realizzazione efficace con tanti spunti di riflessione sul posto che vogliamo dare alla felicità e sul come la tecnologia può avvicinarci ad essa piuttosto che spingerci, in modo centripeto, fuori dal cerchio.
Cosa ho imparato?
- lasciare che l’altro possa esprimere scenicamente, fino in fondo, il suo punto di vista, mi ha permesso di comprenderlo e accettarlo nonostante le mie iniziali reticenze, di entrare in empatia con gli allievi e di trovare inattesi punti di contatto.