Per un terreno fertile

Le sei tappe per una relazione sana coi nostri figli (secondo A. Faber e E. Mazlish)

Sono sei le tappe per cominciare a migliorare la relazione coi nostri figli, di qualsiasi età. Ce lo dicono Marylin Segat e Laurence Demanet, in una conferenza tenutasi la settimana scorsa ed organizzata dall’Associazione dei Genitori delle Scuole Europee di Bruxelles. Lo scopo della conferenza era di dare una prima infarinata all’approccio di educazione positiva di Faber-Mazlish, autori, tra l’altro, di “Come parlare perché i bambini ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino” e di “Come parlare perché i ragazzi ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino” .

Cominciamo con un banale esempio tipico di conflitto casalingo:

Franca, i tuoi giochi sono tutti sul tappeto, mi fai il piacere di metterli a posto?“. Tattica della gentilezza. Aspettiamo un po’, non funziona.

Franca, alla tua età sei capace, direi, di metterli in ordine! Ti sarà poi più facile ritrovarli“. Tattica della ragione. Aspettiamo un po’, non funziona.

Il nervosismo sale: “Franca, te l’ho detto mille volte di mettere a posto, te li butto tutti questi giochi, sei inaffidabile, stasera te li scordi i pancakes!“. Magari la tiriamo anche un po’ fisicamente per farle vedere il disordine. Siamo arrivati ai metodi della forza, del ricatto, della punizione, dell’aggressività.

Abbiamo gridato, ci sentiamo in colpa, abbiamo incrinato la nostra relazione con nostra figlia, magari mettiamo pure a posto noi e ci andiamo a scusare con lei, mentre piange disperatamente in camera sua.

Fantastico. E domani? E dopodomani?

La stessa storia.

Le riflessioni educative che seguono hanno il principale obiettivo di mettere al centro delle nostre preoccupazioni la salvaguardia della relazione, e di sapere, quando la incriniamo, come riparare.

La prima tappa essenziale, senza la quale le altre non servono a nulla, è l’empatia.

Cercare di capire ciò che l’altro prova. Ascoltarlo, lasciare che si esprima, senza farlo sentire giudicato. In questo modo si fa raffreddare il termometro emotivo che, in piena crisi, non lascia spazio alla razionalità. Se non si abbassa questo “troppo pieno” emotivo, sarà inutile tentare di comunicare. Lasciar calmare la persona accogliendone l’emotività, entrare in contatto attraverso un ascolto attivo, senza provare a trovare una soluzione, a dare giudizi. Essere giusto lì per l’altro.

Una volta che l’empatia ci ha permesso di connetterci all’altro, possiamo passare alla seconda tappa: suscitare la cooperazione.

Tra tutte le azioni che vorremmo che facessero i bambini o ragazzi di cui ci occupiamo, e quelle che invece vorremmo non facessero, le nostre giornate sono un campo minato di bombe ad orologeria, pronte a scoppiettare in serie in ogni momento (specialmente quando siamo più stanchi o abbiamo priorità che vengono ostacolate dal loro comportamento).

Se le regole sono chiare dall’inizio (ad es. prima di andare a dormire ci si mette il pigiama e ci si lavano i denti), non c’è bisogno di mille parole moralizzatrici, né di dare ordini che offenderebbero o avvilirebbero chiunque (quanta voglia avete di far piacere a qualcuno che ha un uso profuso degli imperativi, dimenticando il potere delle paroline magiche e della gentilezza?). A volte basta solo un promemoria verbale (o perché no, anche fisico, mettendo al muro delle allegre liste con oggetti calamitati da spostare quando le operazioni sono andate a buon fine). Invece di “Carlo!! Sono le nove! Ancora non ti sei messo il pigiama! Come al solito… quante volte te lo devo dire… non mi fare arrabbiare...” (e chi più ne ha più ne metta), proviamo con un semplice minimalista “pigiama!“. Senza verbi imperativi, senza chiamarlo per nome (caricato emotivamente), giusto un post-it vocale. Ovviamente se il sottotesto è “(Carlo, mettiti questo cavolo di) PIGIAMA (!!!)“, ci sono poche probabilità di avere migliori risultati.

Qualsiasi cambiamento che mettiamo in atto per migliorare la nostra relazione deve essere guidato da un sincero ed amorevole desiderio che ciò accada, non dalla sola speranza che le tecniche funzionino e che i nostri figli facciano quello che vogliamo. Se la volontà è questa, state certi che nulla cambierà, poiché nessuna relazione sana può fondarsi sulla dominazione e la strategia opportunista (mi comporto così perché voglio ottenere qualcosa). In altri termini, queste proposte devono essere prese come mezzo per cambiare se stessi, superare i propri limiti e le cattive abitudini acquisite, insomma, per diventare una persona migliore. Il lavoro è centrato verso di noi, non verso l’ottenimento di un cambiamento rapido dell’atteggiamento altrui (che avverrà certamente se noi cambiamo il nostro).

La terza tappa ci impone proprio di superare i retaggi educativi del passato: eliminare ricompense e punizioni (ho già proposto diversi post su questo tema, ne cito due per approfondimento: “No a premi e punizioni, lo dicono i toltechi“, “il culetto è mio, è mio perciò“).

Marylin Segat e Laurence Demanet propongono un esempio calzante per spiegarci l’inutilità delle punizioni: immaginate che siate su una strada con limite di velocità di 90km/h. C’è nebbia, siete in ritardo, date un colpo di acceleratore e l’autovelox vi fotografa a 120kg/h. Quali sono le vostre reazioni? In genere imprecate. Poi, dopo un po’, ricevete la multa a casa e vi arrabbiate, dite che non è colpa vostra o che siete proprio sfortunati, accusate il Comune di fare soldi su di voi, che siete un bravo cittadino che paga le tasse. Forse non la pagate, la multa, forse mandate una lettera di reclamo. Forse pagate. E la volta successiva che vi troverete a passare davanti al luogo incriminato, farete attenzione perché vi ricorderete della multa (cercando magari strategie per “fregare”, come rallentare per poi riaccelerare), e così ancora per sei mesi . Poi tra un anno, avrete probabilmente dimenticato questo fattaccio, e ricomincerete. Ebbene, in tutto questo lasso di tempo, vi è capitato di essere sfiorati per un attimo dal pensiero che se c’è quel limite, è per la sicurezza vostra e degli altri? Avete pensato che avreste potuto avere un incidente e rovinare la vita vostra o di qualcun altro? Non ci avete pensato non perché siete delle cattive persone, ma perché la punizione ha attirato la vostra attenzione verso qualcosa di molto lontano dal fatto in sé. Qual è la relazione di causa effetto tra “è pericoloso andare veloce qui” e “pago una multa”?

Siamo in ritardo, chiediamo a nostra figlia di sbrigarsi a finire la sua colazione perché dobbiamo uscire e dalla fretta lei fa cadere la tazza, che si rompe in mille pezzi in terra, schizzando la nostra maglia. Il ritardo resta ritardo qualsiasi sia la nostra reazione nei suoi confronti, ma la relazione presente e futura che cuciamo con lei può profondamente cambiare se, invece di urlare, accusare, mettere delle etichette (maldestra, incapace, disubbidiente…), ordinare, punire, etc… scegliamo di permetterle di riparare:

Oh caspita! La mia maglia! Dai, sbrighiamoci, io mi vado a cambiare e tu pulisci per terra con questo straccio per piacere, che se andiamo veloci possiamo ancora arrivare in tempo!“.

La possibilità di riparare ai propri errori (in modo pertinente, in diretto legame di causa-effetto con l’accaduto) dà fiducia al bambino, lo responsabilizza, lo rende partecipe della sua crescita, laddove la punizione crea sentimenti di inferiorità, sottomissione, desiderio di ribellione e vendetta e soprattutto la frustrazione di non poter fare nulla per tornare indietro.

Spesso se ci si approccia all’altro con empatia, se accolto amorevolmente, quando l’emotività lascia spazio alla ragione, la soluzione viene proposta proprio dalla persona che ha commesso l’errore: in condizioni favorevoli, si è colti da un desiderio di cooperazione, di ristabilire l’armonia, del tutto insiti nell’essere umano (animale sociale).

La quarta tappa è l’autonomia.

Spingerlo a fare da solo (il bambino tende naturalmente verso l’autonomia, lo dice continuamente da piccolo che vuol fare da solo, non ascoltarlo, fare al posto suo per la troppa fretta di continuare a srotolare i propri impegni quotidiani, creerà una dipendenza e insicurezza difficili da sanare). Ne va della loro autostima, della loro capacità a trovare soluzioni, a partecipare creativamente ed in prima persona alla vita.

Questa tappa ci richiede di sviluppare il talento della relativizzazione. Accettare che se la sua camicia non è intonata al pantalone perché il nostro pargolo ha scelto dei colori pugno-nell’occhio, va bene così. Se la scarpa è allacciata male, metà della cena è per terra (ma l’altra metà fieramente nella sua pancia), va bene così. Aspettiamo che i nostri piccoli ci chiedano aiuto o un consiglio quando ne hanno bisogno. Se sono per i fatti loro e ci mettono venti minuti a tappare una bottiglia, compriamoci una pallina antistress o un cubo di rubik e concentriamoci su qualcos’altro, fino a quando non ci chiederanno loro una mano. E anche lì, risolviamo per loro solo la metà del problema, affinché partecipino attivamente alla risoluzione. Altrimenti domani non ci provereranno più. Si considereranno incompetenti. E questa auto-etichetta rischierà di ampliarsi a macchia d’olio ogni qualvolta altre situazioni verranno a rafforzarla, con danni alla loro personalità difficilmente recuperabili in seguito.

Quinta tappa: complimenti e autostima.

Per approfondire, vi invito a leggere i post “Autostima e fiducia in se stessi” e “Mamma, non mi dire che sono bravo!“.

Invece di dire “ma quanto è bello il tuo disegno, dammelo che lo attacco sul frigo“, proviamo piuttosto a rispondere al suo bisogno di attenzione da parte nostra interessandoci davvero a quello che ha fatto: “Oh! Qui hai fatto un cerchio e una linea, e qui c’è una curva! Hai usato il blu, il verde, il giallo!“. Descriviamo, invece di esprimere un giudizio (per quanto positivo esso possa essere). E se proprio all’inizio non riusciamo a farne a meno (sono riflessi duri a morire), cerchiamo di esprimere piuttosto quello che sentiamo: “Ma che piacere che mi fa, vedere tutti questi colori!“. Ricordiamoci che la loro libertà mentale dipende da quanto indipendenti sono dal giudizio altrui. E tutto ciò che esce dalla nostra bocca, che siamo le loro figure di riferimento e di attaccamento principali, li marcherà per sempre. Farebbero carte false per meritare il nostro amore, il nostro apprezzamento, e ad ogni: “Che bravo che sei” è insito imprescindibilmente un subdolo “Allora non sono bravo se non faccio così“.

Sesta tappa: smetterla con le etichette.

Lo abbiamo già accennato prima, se diciamo a nostro figlio che è maldestro (o lo facciamo sentire tale quando ad esempio ha fatto cadere la tazza della colazione in terra, privandolo della possibilità di riparare con dignità) questa etichetta gli si attaccherà addosso così forte da diventare magicamente una realtà. Le parole hanno questo potere (consiglio I quattro accordi. Guida pratica alla libertà personale. Un libro di saggezza tolteca). Aboliamo il verbo essere (SEI una chiacchierona), ponendo invece l’attenzione sul comportamento, che è transitorio (oggi hai proprio tante cose da dire).

Ricordiamoci che i nostri bambini e adolescenti fanno “marachelle” il più delle volte per inviarci un messaggio, se tale input non viene recepito, i modi di esprimerlo si moltiplicheranno. La punizione, il giudizio, il mettersi al di sopra di loro, ci allontanano dalla possibilità che questo messaggio venga espresso in un modo comprensibile per noi.

Sta a noi scegliere se vogliamo investire sulla relazione, in modo duraturo, o su un’apparente sensazione di essere ubbiditi o di avere un rassicurante potere su di loro.

Non siamo in guerra. Siamo tutti sulla stessa barca…

Libri meravigliosi

Calmo e attento come una ranocchia. Esercizi di mindfulness per bambini (e genitori).

Mi piacciono i libri che ti lasciano camminare dentro. Libri che hanno vuoti da riempire con la mente. E in questo volume, di spazi ne sono lasciati tanti. Gli stimoli sono vari e diversi, dall’importanza della respirazione, ai giochi di attenzione, passando per mandala da colorare, favole da leggere, pagine da ritagliare, impressioni da lasciare sulla carta. Alcuni esercizi di yoga e meditazione per bambini da scaricare (nella versione in francese c’è annesso un CD), e tanta importanza data alla gentilezza come attitudine propizia al proprio benessere, ancor prima che all’eventuale benessere che essa può certamente provocare negli altri.

L’ho trovato davvero un libro completo, per la proposta delle attività che toccano tutti i sensi e invitano il bambino ad una passeggiata che può iniziare aprendo una qualsiasi pagina, spinti dal caso o dalla voglia del momento.

Per un terreno fertile

Il nostro cervello non è come il loro. Ovvero, i bambini non ci mettono alla prova.

Ancora oggi una crisi. Ha tre, quattro o cinque anni. Si sveglia, mi fa richieste improbabili o che sa che sono vietate. Oppure mi chiama per aiutarlo a fare qualcosa e quando arrivo rifiuta il mio aiuto. Ma allora lo fa a posta? Mi fa saltare i nervi! Mi mette alla prova?

I. Filliozat, psicoterapeuta, risponde con un gran “no“. A quell’età il bambino testa se stesso, la comunicazione, il mondo intorno in relazione a quello suo, interiore. Filliozat ci dice chiaramente (espresso a parole mie, in modo molto libero): “Ma perché, se ogni mattina è la stessa storia, se ogni mattina ti chiede cose improbabili, tu, puntualmente, ogni mattina gli dici di no, con quelle ciglia aggrottate? Eppure lo sai che quel no creerà una crisi, un vortice che renderà impossibile vestirsi, fare colazione, lavarsi i denti, una reazione a catena che vi porterà, ancora una volta, a passare un pessimo momento insieme, di reciproca violenza verbale e fisica“.

E quindi? Direte voi, quindi dovrei dargliela sempre vinta? No.

Per un terreno fertile

Non in suo nome. Castighi divini e integrità del bambino.

Ero al parco, placidamente seduta su una panchina, mentre qualche gridolino più in là, mio figlio giocava col papà. 

Due cordiali e sorridenti donne mi si avvicinano e mi chiedono di fare due chiacchiere sulla religione. Mi citano passi delle sacre scritture, ci confrontiamo su come il cambiamento climatico altro non sia (per loro) che l’avverarsi della profezia divina. In fondo fin qui ci può stare, modi diversi di interpretare la realtà, di dare un nome alle cose. Poi però si finisce a parlare di educazione. Che i bambini e i genitori non sono più come quelli di una volta. Che le sacre scritture dicono che dall’alto vengono chiare prescrizioni pedagogiche di minaccia e punizione, di vile mescolanza psicoanaliticamente pericolosa tra amore e violenza:

“Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti”. (Ap 3, 19)

foto di Alessio Lin

 “Certo“, mi dice la più giovane, “mica si arriva subito alla sculacciata (ché una sculacciata non ha mai fatto male a nessuno), prima si prova con la voce grossa, poi si provano varie punizioni, poi se proprio non funziona… perché altrimenti dove andiamo a finire?“.

Per un terreno fertile

Picconate per l’uguale dignità.

Io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo“.
(Epitaffio sulla tomba di Maria Montessori)

Se da una parte trovo che sia un segnale positivo questo interesse crescente per una pedagogia più attenta alle esigenze del bambino, dall’altra sono disturbata da una serie di fattori che vanno dalla strumentalizzazione alla banalizzazione degli insegnamenti che personalità, per me degne di nota, come Montressori e Juul (per citarne solo due) ci hanno lasciato. Pare che oggi venga definita “disciplina dolce“, termine che non mi piace affatto ma che userò qui per essere più rapidamente compresa. Sento spesso frasi del tipo “Mi sono messa alla disciplina dolce ma con mio figlio non funziona!“, “è un metodo che risulta dal sempre crescente lassismo dei genitori moderni“, “una scusa per non entrare in conflitto“, “con me ha funzionato benissimo, mio figlio mi ubbidisce che è un piacere!“.  Mi intristisco, perché mi rendo conto che questo così prezioso interesse per il bambino, parte da presupposti sbagliati e diventa fenomeno di moda, come l’uso che viene fatto dell’educazione alle emozioni, spesso un discorso solo di facciata, superficiale, a cui manca la necessaria riflessione e formazione per farne uno strumento di crescita (dell’adulto come del bambino).

Eppure questa cosiddetta “disciplina dolce” è un’opportunità di salvezza per la nostra società. Montessori già ce lo diceva, che qui v’è la sola possibilità per un avvenire di pace tra i popoli, perché sì, è a loro che l’avvenire appartiene. 

Non si tratta semplicemente di applicare un metodo, ma di destrutturare e abbattere tutti (e dico tutti…) gli schemi nei quali siamo imprigionati da secoli. Schemi che vedono gli esseri umani su una scala gerarchica, guidati dall’autorità, dalla paura, dall’obbedienza. In casa come fuori, le pedine si muovono sulla scacchiera secondo giochi di potere più o meno complessi e articolati.

Si prende il cambiamento dal lato sbagliato, mettendo delle pezze invece di lavorare alla costruzione di quello che M. Montessori chiamava “l’uomo nuovo“.

Certo. Meglio questo che niente?

Penso alla legge promulgata in Francia quest’anno per rendere perseguibile la violenza ordinaria contro i bambini e mi chiedo se sia meglio questo che niente. Ma come è possibile che viviamo ancora in una società che considera la sculacciata come un buon metodo educativo, che ha ottimi risultati e che non ha mai fatto male a nessuno? (Se lo pensate, date una sfogliata, tanto per cominciare, a Alfie Kohn, Amarli senza se e senza ma. Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione). E che cambiamenti profondi societari ci aspettiamo se l’unico modo che si riesce ad immaginare per sradicare certe convinzioni si traduce con una legge?

foto di S. Zeller

Eliminare la violenza “educativa” senza aver scardinato le convinzioni che rendono plausibile questo atteggiamento nei confronti di un altro essere umano, non faranno che sostituire questa violenza (quando davvero una legge basta a sostituirla) fisica in psicologica. 

Finché non pianteremo in noi stessi e nella nostra educazione i semi di una comunità di uguale dignità, in cui bambini e adolescenti siano considerati validi membri, continueremo ad alimentare una società aggressiva. Continueremo a cercare un “metodo che funziona” per farci ubbidire dai bambini (offendendone la loro dignità) invece di concentrarci sulla relazione che vogliamo creare con loro (anche attraversando i conflitti). 

J. Juul propone un modello di leadership condivisa che reputo molto interessante:

In termini di educazione, la leadership condivisa ha come punto di partenza il concetto che sia genitori sia i figli abbiano necessità e limiti diversi, che non siano basati sul consenso dei genitori riguardo ai limiti e alle regole, ma sul principio che ogni individuo deve essere considerato con serietà.  Questa può essere definita una “famiglia post-democratica”, nella quale si dà più importanza al processo decisionale che non alla decisione, e nella quale la minoranza è coinvolta, e non marginalizzata“.

Ora scusate, ma devo andare a prendere il piccone e continuare a lavorare su me stessa, ché c’è tanto da fare e il tempo è poco, così terribilmente poco…


Semi di meraviglia: parole al vento

L’insostenibile responsabilità dell’esser genitore

Un pensiero che rumina in me da quando sono diventata mamma è la consapevolezza della responsabilità che m’incombe: come crescere mio figlio affinché la sua natura si riveli e come, al contempo, riuscire a trasmettergli quei valori (primo tra tutti, il rispetto di se stesso e dell’altro) che sono per me imprescindibili.

Un pensiero che rumina in me da quando sono diventata mamma è la consapevolezza della responsabilità che m’incombe: come crescere mio figlio affinché la sua natura si riveli e come, al contempo, riuscire a trasmettergli quei valori (primo tra tutti, il rispetto di se stesso e dell’altro) che sono per me imprescindibili.

Attraversando la lettura dei suoi libri, Maria Montessori me lo ripete così spesso: il bambino nasconde già in sé l’enigma dell’uomo (e della donna) che sarà; il rivelarsi di questo meraviglioso enigma è appeso al fragile filo messo in pericolo dall’interventismo dell’adulto (che sarei io…) che, peccando di  superbia si considera come il

Plasmatore del bambino, e il costruttore della sua vita psichica […]. E ha pensato di se stesso ciò che è detto nella Genesi:Io creerò l’uomo a mia immagine e somiglianza“.  (Montessori, Il bambino in famiglia).

Dici facile, Maria. Essere genitore vuol dire scavare all’interno della propria infanzia con tutte le conseguenze dolorose e psicanalitiche che tale viaggio comporta, ripercorrerla cercando di ricordarsi come il nostro modo di vedere il mondo fosse diverso, sviluppare quell’empatia che non solo permetta di capire e accettare i tempi e modi di questa nuova creatura, ma proprio di tornare a divertirsi condividendo quei tempi e quei modi. Come mi ha proposto pochi giorni fa mio figlio, ricordarmi che mettere le dita nel fango, scava dentro ad anni di educazione all’igiene, pigrizia degli adulti (sporcarsi significa che qualcuno debba poi pulire), false paure che inibiscono il piacere di toccare la vita, che a volte è sporca, umida e viscida, come il fango nel fondo di una torbida pozzanghera.

Essere genitore è un atto politico perché su di noi incombe anche la responsabilità di che mondo lasceremo ai nostri figli e di che figli lasceremo al mondo. Me lo dici e me lo ripeti, cara Maria, nel tuo Educazione per un mondo nuovo:

Se v’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo, e di conseguenza la società“.

Ma io sono figlia di questa società che produce armi invece di cultura, che maschera l’ingiustizia chiamandola democrazia e libertà, che si ciba della miseria dei tanti tenendo viva la fiamma della paura, solo per alimentare l’opulenza dei pochi, che parla e agisce con violenza, che il più grande periodo di “pace” che ha saputo offrire al popolo, l’ha chiamato “Guerra fredda”.  Come posso disfare questo castello di menzogne, dissipare la nebbia per vedere il giusto e proporlo a mio figlio? Sono solo una mamma, dove trovare tanta intelligenza, tanta cultura, tanta saggezza?

Esser genitore vuol dire avere la forza e l’umiltà di ricostruirsi. Destrutturare il linguaggio e il pensiero nella ricerca del giusto modo di esprimersi e di pensare, abbandonando i retaggi di una parte della nostra educazione, recuperandone altri che abbiamo perso per strada. Cerco ad esempio, bimbo mio, cadendo nella trappola mille e mille volte, di non dirti bravo (Mamma non mi dire bravo e Autostima e fiducia in se stessi) né capriccioso (I capricci non esistono, Capricci o campanelli d’allarme?) di non giudicare te ma i tuoi comportamenti, di esprimere i miei sentimenti e di cercare di nominare i tuoi (Bambini piccoli scenate in pubblicoPerché è così importante riconoscere le emozioni?), di ricordarmi ogni giorno (questo mi è per fortuna ancora facile) il miracolo che rappresenti nella mia vita, e di come debba essere difficile, per te, crescere (Crescere figli nella gioia e Il segreto per passare una fantastica giornata in famiglia).

Quanto tempo ho per imparare ad essere genitore? È già troppo tardi? Chi riparerà i miei torti?

Tu stesso, lo so, figlio mio. Sappi che io ce la sto mettendo tutta. Che è un viaggio incredibile. Che mi stai permettendo di diventare una persona migliore.  La strada è impervia e, per non smarrirmi, cerco di starti il più vicino possibile, tu che sei la torcia, di ascoltarti, tu che sai, di approfittare della tua saggezza per crescere ancora un po’. Rubarti quella leggerezza che solo tu sai regalare così, riempiendo il tempo e lo spazio della tua risata e del tuo buonumore.

 

Per un terreno fertile

Favorire la capacità di concentrazione nei bambini

Figli iperattivi. Incapaci di focalizzare l’attenzione. Incapaci di restare concentrati. 

Se ne sente parlare sempre più spesso e, senza entrare nel merito dei disturbi dell’apprendimento, che necessitano un riconoscimento e un accompagnamento adeguati,  la capacità di prestare attenzione può essere favorita. Per questo, vorrei riportare alcune riflessioni proposte da M. Montessori e M. Csíkszentmihályi in merito alla concentrazione e come coltivarla e preservarla nei bambini. Continua a leggere “Favorire la capacità di concentrazione nei bambini”

Per un terreno fertile

Capricci, capricci! O campanelli d’allarme?

Continuo la mia escursione attraverso le parole di pensatori che si approcciano al bambino ed al fenomeno pompa-energie comunemente definito come “capriccio”. Combatto già da qualche articolo la loro esistenza (intesa come rifiuto insensato di seguire la logica adulta), accompagnata dai punti di vista di studiosi del capriccio e delle neuroscienze (I capricci non esistono). Oggi, immersa nella magnifica lettura de Il segreto dell’infanzia di Maria Montessori, mi servo della sua ispirazione per aggiungere un mattone alla costruzione di una visione del bambino più attenta al suo mondo interiore. Ho già citato precedentemente l’immaturità cerebrale (in particolare dell’area prefrontale) dei piccoli di uomo, che comportano un’esplosiva difficile gestione delle emozioni e che rendono quindi spettacolari le loro reazioni (Bambini piccoli e scenate in pubblico: io speriamo che me la cavo).

In questa sede, vorrei introdurre il concetto di periodi sensibili. Continua a leggere “Capricci, capricci! O campanelli d’allarme?”

Per un terreno fertile

Sempre in ritardo per colpa dei tuoi bimbi? Qualche alternativa alle incitazioni minacciose.

Posso sostanzialmente dividere in due grandi insiemi le situazioni durante le quali mi trovo a dover/poter imporre la mia autorità per ottenere rapidamente una risposta da mio figlio, con conseguenti crisi di pianto o ostruzionismo: situazioni di reale urgenza e situazioni minori.

Nelle situazioni urgenti ci sono poi dei sottogruppi. In una situazione di pericolo, ad esempio, la mia reazione istintiva è così fisicamente e verbalmente determinata, che mio figlio generalmente capisce subito i segni arcaici dell’urgenza e li accetta (Scotta! Taglia! Schiaccia!). Poi ci sono quelli dell’urgenza sociale o personale, che sono ben più difficili da far comprendere ad un bambino (un appuntamento, l’entrata a scuola o in ufficio, un treno che parte o semplicemente l’esaurimento della dose giornaliera di pazienza) ed è quindi più complesso far accettare al bambino che è ora di muoversi, adesso, senza esitare. Continua a leggere “Sempre in ritardo per colpa dei tuoi bimbi? Qualche alternativa alle incitazioni minacciose.”

Per un terreno fertile

No a premi e punizioni, lo dicono i toltechi!

Generalmente non rileggo mai due volte lo stesso libro, ma ieri ho trovato abbandonato sull’autobus “I quattro accordi. Guida pratica alla libertà personale. Un libro di saggezza tolteca“. Vista la natura dello scritto, mi sono detta che non doveva trattarsi di un evento fortuito, bensì di un esoterico calcolo del destino che mi mandava un messaggio pregno di senso. Così, vista la cospicua durata del mio tragitto nel traffico, mi sono immersa nella lettura, acconsentendo alle indicazioni del Caso.

Non si tratta di un testo di pedagogia, eppure, con un approccio e parole diverse, è stato curioso ritrovare vari temi di cui ho parlato nei miei articoli precedenti. Primo tra tutti, la dannosità dell’uso delle punizioni e ricompense nell’educazione dei nostri bambini. Nel post “Mamma! Non mi dire che sono bravo!” Perché gli elogi non sono salutari” faccio essenzialmente riferimento al punto di vista di Alfie Kohn, lo approfondisco grazie ai contenuti di Jesper Juul in “Autostima e fiducia in se stessi“, e continuo il percorso di ricerca citando qui Don Miguel Ruiz. Continua a leggere “No a premi e punizioni, lo dicono i toltechi!”