C’erano una montagna di fagiolini da mondare. Quale migliore occasione per la mamma del mio compagno per narrarmi una storia che gli raccontò forse un suo zio.
Mentre le mie dita pulivano i fagiolini, il mio bambino interiore, intuendo l’inizio di una storia, si era immediatamente fiondato a sedersi in terra, intorno al caminetto immaginario, con gli occhi e le orecchie grandi grandi.
Il piccolo Edison tornò un giorno da scuola con una busta chiusa da consegnare alla mamma.
“Mamma”, disse il piccolo Edison inquieto, “la maestra mi ha detto di darti questa lettera“.
La mamma tirò fuori il naso dai fornelli, si andò a lavare le mani, inforcò gli occhiali e aprì la lettera. La lesse una volta silenziosamente, seriamente, sommessamente. Poi alzò lo sguardo verso il figlio, che attendeva fremendo e un po’ tremando, intuendo la gravità del momento.
La mamma rigettò gli occhi nella lettera e cominciò a leggere ad alta voce:
“Cara la mia Sig.ra Edison,
Mi rammarica doverLe comunicare quanto segue, ma non siamo purtroppo nelle condizioni di agire diversamente.
Suo figlio è sveglio, intelligente, sensibile. Sembra strano doverlo dire così, ma troppo sveglio, intelligente e sensibile perché io possa dargli il seguito che merita senza trascurare i suoi compagni. Le chiedo quindi di tenerlo a casa per potergli fornire un’istruzione adeguata alle sue capacità“.
La mamma chiuse quindi lentamente la lettera e lentamente la ripose in un cassetto della madia.
Il piccolo Edison stupito dal contenuto, tirò un sospiro di sollievo. La mamma lo abbracciò e andarono a mangiare la minestra.
Gli studi a casa furono all’altezza delle sue capacità. Da grande diventò uno scienziato ed inventò la lampadina che rivoluzionò la vita degli uomini e donne di questa Terra.
Un giorno, quando il piccolo Edison ormai era diventato grande, la mamma morì. Mettendo a posto le sue cose, il figlio aprì la madia e vi trovò la lettera della sua maestra. Con un po’ di nostalgia la aprì per rileggerla:
“Signora Edison,
mi rammarica doverLe comunicare quanto segue, ma non siamo purtroppo nelle condizioni di agire diversamente: il quoziente intellettivo di suo figlio difetta. Non abbiamo insegnanti speciali a sostegno e non possiamo rallentare il programma per adeguarci alle sue carenze. Siamo spiacenti di doverLe comunicare che non possiamo più accoglierlo nella nostra istituzione. Cordiali saluti.”
Un brivido lo attraversò. Una corrente d’aria che veniva dagli infissi chiusi male, o da dentro di lui. E poi subito dopo il calore del ricordo della mamma.
Sorrise e mormorò qualcosa. Forse, un “grazie, mamma“.
Fiabe, favole, miti e leggende. Non si va a cercare se siano veri o meno, ma ci si lascia attraversare dal racconto e dall’insegnamento che si portano dietro.
O meglio, si prendono per vere, perché come dice Calvino, in fondo lo sono:
“Io credo questo: le fiabe sono vere, sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna”.
Dalle fiabe, favole, miti e leggende ci si lascia cullare, a volte spaventare. Entrano in noi e insidiano domande, quesiti, dubbi, che sono alla base dell’imparare. Sciolgono alcuni nodi e altri li lasciano da sciogliere a chi li ascolta.
Educano, prima di tutto all’ascolto. Svegliano l’immaginario, più di ogni film d’animazione. Sono stati per secoli la nostra memoria.
Oggi svaniscono, sempre più malamente.
E se fosse un po’ da cercarsi anche qui, la perdita della memoria sociale e di certi valori che si avverte sempre più nelle nuove generazioni “postmoderne”?