Per un terreno fertile

“Mamma! Non mi dire che sono bravo!” Perché gli elogi non sono salutari.

Il mese di ottobre mi ha regalato una pioggia di date per l’ultimo “spettacolo” a cui da tempo stiamo lavorando. “Spettacolo” non è proprio la parola giusta per definirlo, trattandosi di teatro invisibile. I partecipanti, infatti, tranne qualche raro caso, non sono consapevoli, almeno all’inizio, di far parte di un dispositivo scenico e pensano di avere a che fare con persone, non con personaggi fittizi: “vittime” di una situazione non vera ma verosimile. Le scuole hanno risposto favorevolmente alla nostra proposta e invece dei soliti adulti e adolescenti, ci siamo trovati di fronte classi di bambini di una decina d’anni. L’esperimento a cui sono stati invitati a partecipare, li ha portati ad entrare in una cabina in tre, massimo in quattro alla volta, con un “esperto” (gli attori, tra cui ci sono anch’io). In modo quasi del tutto aleatorio sono stati assegnati punteggi affinché finiscano, nella stessa cabina, un bambino molto molto meritevole, uno sulla buona strada, e uno che ha proprio un brutto risultato numerico, al quale si rifiuta perfino per un attimo l’accesso (che poi si fa entrare spinti da magnanimità). Durante il processo al quale hanno partecipato, pian piano si stravolgono le carte in tavola e, colpo di scena, il peggiore diventa migliore e viceversa. Le lodi si spengono nei confronti del “bravo”, con relativo biasimo da parte del mio personaggio, e si accendono per il “somaro”.FullSizeRender

Ed è qui che volevo arrivare.

Mai come ora, ho potuto vedere sotto i miei occhi e proprio sentire con sofferenza, a che punto il giudizio di una persona insignificante (e di fatto, inesistente) quale il personaggio che interpreto, possa colpire profondamente, nel bene e nel male, l’orgoglio di un bambino (anche di un adolescente e di un adulto, a dirla tutta, ma coi bambini questo fenomeno diventa proprio palpabile). Questo fatto ha provocato in me una certa rabbia interiore: come è possibile che questi bambini così splendenti di tutta la loro energia, curiosità… bambinità, possano lasciarsi portare così in alto e così in basso da ingiustificati lodi e rimproveri sparati a casaccio? Come è possibile lasciarsi intaccare così profondamente da qualcuno che ti riduce e ti tratta come un numero? (Rimando qui al mio articolo in cui metto in discussione i voti a scuola).

Grazie a questa rabbia, trovo finalmente il filo per scrivere quest’articolo che era in attesa da mesi, il cui tema è: perché è sbagliato dire “bravo!” ad un bambino?

Perché dire ad un bambino che è “bravo”, ossia utilizzare un rinforzo positivo per sottolineare che approviamo quello che ha fatto, è – come scrive Alfie Kohn nel suo Amarli senza se e senza ma. Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione – “l’incarnazione stessa del principio dell’amore condizionato“. Poiché “bravo!” è un giudizio, non una descrizione, che porta sempre con sé, implicito, anche se non vorremmo, il messaggio speculare: ti amo perché ti comporti in questo modo, non ti amerei se ti comportassi diversamente. Più precisamente ce lo spiega ancora A. Kohn:

“Da uno schema di rinforzo selettivo è facile che il piccolo deduca che ha la nostra approvazione solo quando fa quello che piace a noi (guarda com’è contento papà quando colpisco la palla… Solo quando la colpisco). Ciò rischia, a sua volta, di tramutarsi in autoapprovazione condizionata, con un processo a catena di questo tipo: (1) “Mi piace come hai fatto questa cosa qui” al bambino potrebbe suonare come (2) “Mi piacperché hai fatto questa cosa qui”, derivandone di conseguenza (3) “Non mi piaci quando non fai questa cosa qui”.  Alla fine del processo il bambino pensa (4) “Non piaccio se non faccio questa cosa qui”.

E come fare per incoraggiare allora i nostri piccoletti e far sentire loro quanto siamo fieri senza mettere in atto questo fenomeno? Gli psicologi e pedagogisti, che appoggiano il suddetto schema, ci invitano ad essere contenti col bambino e non del bambino. Non quindi giudicando la buona riuscita dell’azione intentata, ma condividendo una gioia che il bimbo provava già, a prescindere dal nostro punto di vista…

Non trovo che sia facile applicare questo accorgimento, anche se sono convinta che sia un approccio giusto. A volte vedo mio figlio concentratissimo in attività di grande abilità tecnica… ad esempio quella volta che è riuscito ad impilare tre solidi uno sull’altro e un gridolino di gioia con battito di mani integrato mi è scappato in automatico (forse ho anche saltellato sul posto). Una deficiente. Certo, esternazione di tutto l’amore che provo per questa creatura e per i suoi fanstasmagorici progressi nel mondo dell’edilizia, ma ho in questo modo, di fatto, spezzato la concentrazione pura con cui il mio ingegnere adorato si deliziava. Quello che poi è straordinario in queste situazioni è che il fatto di riuscirci o meno è per lui del tutto irrilevante (infatti quando non ci riesce, semplicemente, va a fare qualcos’altro senza esternazione emotiva) e se ci riesce, si gratifica tutt’al più con un monosillabico “eh!” e poi butta giù tutta la costruzione, non v’è ancora la macchia del giudizio, né di quello esterno, né di quello – in assoluto il più diabolico – interno (la fantomatica autostima… vogliate accompagnare a questa parola qualche nota dell’incipit della sinfonia N.5 di Beethoven). Nella sua psiche ancora così deliziosamente limpida, non esiste il “sono bravo“, ma un sempre più crescente IO SONO. Soprattutto da quando ha scoperto la connessione cervello, bocca, mano (“Sono ergo tocco tutto e tutto metto in bocca”). In un modo straordinario, un modo che gli artisti poi cercheranno di ritrovare per tutta la loro carriera, quell’essere presenti a se stessi, qui ed ora, semplicemente, intensamente, pronti integralmente alla vita.

Sempre nel suo Amarli senza se e senza ma, A. Kohn sembra dirci che queste esternazioni spontanee e entusiastiche che ci scappano per un mal incanalato entusiasmo parentale, non sono troppo gravi (fiuuuuff!), almeno meno gravi di quando si usa la lode per fare cambiare un comportamento (“bravo il mio bambino che ha mangiato tutta la pappa…“, “bravo il mio bambino che si è fatto fare il bagnetto calmo calmo“, “bravo il mio bambino che non fa i capricci“, “che è stato buono e non ha pianto dal pediatra“…). Ma qualsiasi atteggiamento che preveda un’implicita o esplicita punizione così come un implicito o esplicito premio (e il “bravo!”, abbiamo visto, fa parte dei casi impliciti), attiva il meccanismo che li renderà dipendenti dall’opinione dell’altro, sia esso pure uno sconosciuto che ti invita ad entrare in una cabina, dicendoti che sei un fantastico quattro punto tre, o un vergognoso due punto quattro. E attiverà purtroppo anche quel meccanismo che ci rende vittime di noi stessi, di quella inestinguibile incolmabile insoddisfazione, di quel giudizio spesso negativo su noi stessi che il più delle volte, e qui parlo come insegnante di teatro per adulti, non si riesce a cancellare neanche se le evidenze mostrano il contrario.

“Se è appurato che l’elogio è un esempio di amore condizionato, esso risulta, quindi, pericoloso a prescindere dalle ragioni del mittente e anche in assenza di una precisa volontà di controllo. Ciò vale soprattutto nel caso in cui i nostri commenti positivi e altre espressioni del nostro bene rimangano circoscritti alle occasioni in cui un bambino ci compiace”. [Alfie Kohn]

Questo il motivo della rabbia che mi ha interiormente bruciacchiato durante le rappresentazioni del dispositivo scenico di cui sopra. Vedere queste meraviglie darmi tanto potere è disarmante. Ma si rendono conto che se sono lì a sentirmi sentenziare giudizi, che se sono in vita, che se siamo in vita, abbiamo vinto la corsa su una flotta di almeno trenta milioni di spermatozoi accaniti, abbiamo attraversato indenni acidi vaginali, abbiamo imboccato le tube senza restare bloccati come molti confratelli girini, siamo sfuggiti alle affamate cellule dell’utero? E che alla fine, dei duecento superstiti arrivati forse all’utero, siamo noi, ad essere arrivati all’ovulo, ad aver attivato la fusione tra le membrane cellulari. Non per farne un vanto, poveri altri spermatozoi, ma per dire che non abbiamo nulla da provare a nessuno, che la vita ci ha accolto e che noi già siamo pronti alla vita. E soprattutto, che siamo fatti della stessa materia di cui sono fatto i sogni, non di quella del rotolo di carta di una calcolatrice elettronica.

Immagine di copertina da un disegno modificato di Norman Rockwell.
Per un terreno fertile

Caramelle gommose e bambini felici: il controllo inibitorio.

Hai presente il Marshmallow, quella caramella morbida americana bianca o rosa, che gommeggia in bocca, spruzzando zuccheri come se non ci fossero carie al mondo, particolarmente giubilatorio se scaldato al fuoco in uno spiedino? No?! Beato te.

Il Marshmallow, se lo hai conosciuto da bambino, resterà per sempre impregnato nella tua memoria gustativa, come il diavoletto capace di farti deviare inesorabilmente dalla retta via alimentare.

Te lo potrebbero confermare i 500 bambini di 4 anni che nel 1972 hanno partecipato al Marshmallow Test, e tutti quei bambini che negli anni successivi hanno subìto a loro insaputa, in modo ludico e non scientifico, lo stesso trattamento.

Si tratta di un esperimento molto semplice e ilarante: fai sedere un bambino davanti ad un elegante piattino con sopra un Marshmallow e lo informi che ti devi assentare, che se vuole può mangiarlo, ma che se quando torni non lo ha toccato, ne avrà un altro, due invece di uno (two is better than one!)… Poi ti assenti per un quarto d’ora dopo aver predisposto una telecamera nascosta per goderti la reazione. Su internet, puoi divertirti a guardare uno dei tanti video di Marshmallow Test che sono stati fatti negli anni successivi all’esperimento originale. Ad esempio, questo qui.

Ma perché un eminente psicologo come Walter Mischel avrebbe voluto infliggere questa tortura ai bambini? Il suo scopo era quello di verificare il controllo inibitorio nei bambini di quattro anni (età in cui questa competenza, se stimolata, comincia a svilupparsi) e di seguirne la crescita fin nell’età adulta. Ciò gli ha permesso di teorizzare l’impatto che la capacità di saper attendere ha sullo sviluppo globale della persona. Secondo questo studio, i bambini che a 4 anni erano risultati in grado di pazientare per meritarsi la seconda caramella gommosa, da adolescenti sarebbero risultati più sicuri di sé, con una migliore gestione dello stress, avrebbero avuto più amici e, anche se con un Quoziente Intellettivo più basso, sarebbero riusciti ad entrare nelle migliori università o avrebbero ottenuto un lavoro più soddisfacente rispetto ai coetanei privi di tale abilità. In definitiva, ciò che più conta, sarebbero nel complesso persone più felici.

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Se hai un controllo inibitorio debole, ci avverte Céline Alvarez nel suo Le leggi naturali del bambino, la più piccola distrazione ti deconcentrerà, sarai incapace di attendere il tuo turno per parlare o per agire, avrai grandi difficoltà a controllare le tue emozioni e abbandonerai rapidamente le azioni intraprese per mancanza di perseveranza.

Inquietante, se pensiamo che questa importante competenza, dalla quale dipenderebbe la nostra felicità futura, non si sviluppa automaticamente. Che, affinché possa esercitarla e integrarla, il bambino deve ricevere gli stimoli giusti durante il periodo sensibile dei 3/5 anni.

No, inutile privarlo di Marshmallow. Il bambino potrà acquisire il controllo inibitorio  – ci indica ancora Céline Alvarez – solo se si confronterà da solo a situazioni che metteranno alla prova le sue capacità esecutive, spronandolo a raggiungere obiettivi precisi, a scegliere e controllare gesti ed emozioni appropriate, a pianificare le sue azioni, a restare flessibile in caso di errore. E, in questo, l’adulto può (e deve) aiutarlo, stimolando la sua autonomia, invitandolo ad esempio a mettersi le scarpe o ad insaponarsi da solo, a mettere in ordine le sue cose, a partecipare alla vita di famiglia (Montessori diceva che a due anni un bambino può già rifarsi il letto da solo, o raccogliere le mandorle cadute dagli alberi e a cinque, coltivare autonomamente un pomodoro, dalla semina alla raccolta).

“L’adulto può soltanto incoraggiarlo, a partire dai tre anni, a fare da solo ciò che può fare da solo, accompagnandolo senza fare al posto suo, incoraggiandolo fino a rendersi progressivamente invisibile. Niente di più. Nessun bisogno di andare a cercare delle attività straordinarie. A tre anni, l’ordinario è straordinario”. [Céline Alvarez]

Mi chiedo se da piccola avrei aspettato quei fatidici quindici minuti. Forse sì, per poterne portare uno a mio fratello. Avevo questa fissa, ricordo, di voler condividere tutti i piaceri della vita con lui. Oggi forse mi fionderei sul Marshmallow ancora prima che abbiano finito di spiegarmi le regole. Ma da grandi non conta, no?, o è poi la chiave per essere una vecchietta felice?