Il progetto teatrale “Mur-murs” nasce da una collaborazione con un’educatrice che stimo molto, che fa un eccellente lavoro non solo con i bambini ma anche con i genitori, portando avanti con entusiasmo e successo un’associazione in un quartiere non facile.
Eppure, le nostre spinte pedagogiche si sono dimostrate a più riprese agli antipodi.
Per lei, non bisogna felicitarsi coi bambini perché questo rallenta la possibilità di migliorarsi. È molto direttiva e chiara nello spiegare i perché e i per come di un esercizio, mentre per me tutto l’interesse risiede nell’interpretazione del bambino, nell’errore di comprensione che diventa serendipità, nella relazione elastica che si crea tra di noi e che intesserà quasi da sola la narrazione del nostro racconto scenico.
È stato qui interessante vedere in che modo queste due ipotesi educative, fondendosi, ci hanno portato alla rappresentazione.
Essendo un gruppo di bambini di immigrazione di seconda generazione (loro nati nel paese d’adozione dei genitori), mi è sembrato potesse essere interessante, tenendo conto anche delle loro proposte, lavorare sul tema del muro in generale e dei muri che oggi migliaia e migliaia di migranti cercano di attraversare per fuggire dai loro Paesi natali.
Due aneddoti mi sono rimasti in mente. Il primo vede protagonista A. di 10 anni, che dopo quasi due mesi di prove, in cui interpretavamo il viaggio di un minore non accompagnato, ha il coraggio di esprimersi: “Ma io ho paura dei migranti, sono terroristi!“. Questa frase è stata l’occasione per aprire un vaso di Pandora di mezze informazioni sentite alla TV, amalgama di discorsi superficiali e scorciatoie pericolose, soprattutto quando arrivano all’orecchio di un bambino che, per quanto protetto il più possibile, vive comunque in una città che avrebbe vissuto, di lì a poco, il trauma di una bomba in metropolitana.
La paura è un’emozione insidiosa, che a volte prende forme irriconoscibili, come la violenza, l’aggressività, il disprezzo. Mentre nella sua forma pura è un utile mezzo di sopravvivenza, le sue trasformazioni sono invece del tutto deleterie.
Non so se siamo riusciti a placare almeno un po’ la paura di A., se ha creduto a noi o alla TV. Quello che mi auguro è che da paura non diventi altro e che vada, un domani, a mettere nuovi mattoni sui già troppo numerosi muri che ci dividono.
Il secondo aneddoto che mi ha marcato si è svolto durante una parentesi in cui, nell’ottica di creare i nostri personaggi per la rappresentazione, spiegavo come utilizzare il bacino. Invece di invitare i bambini a visualizzare il loro coccige, ho indicato il punto in questione sul mio corpo (ciò che crea sempre grande ilarità), aggiungendo senza riflettere “laddove prima avevamo la coda“. Nei venti minuti successivi ho visto proprio crescere fumettisticamente, sopra la testa di B., un grosso punto interrogativo, che è finalmente esploso interrompendo le prove: “ma quindi… Adamo ed Eva avevano la coda!”
Impreparata sul luogo specifico in cui storicamente Darwin e i vari personaggi evangelici si siano fatti un cicchetto insieme, ho glissato un codardo “…laddove avremmo avuto la coda se fossimo stati animali” e sono andata avanti.
Eppure, vi dico la verità, da quel giorno, nel mio immaginario, il giardino di Eden è popolato da ingenui beati primitivi esseri umani che scodinzolano sotto il grande albero delle mele…
Cosa ho imparato?
Tutto quello che diciamo ha in un bambino una risonanza impressionante. Siamo responsabili delle zavorre o delle ali che lasceremo loro in dotazione. Che tutte le mie parole siano dosate, che possano alimentare in loro la poesia e la curiosità. Che possa aiutarli a sentirsi al sicuro per esprimere le loro paure e poterle così attraversare insieme prima che degenerino. Che possa essere all’altezza di questo compito.
Contributi fotografici @lauralafon.