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TV e difficoltà di concentrazione
Ma perché la televisione dovrebbe causare difficoltà nel mantenere viva la concentrazione, quando è evidente che un bimbo anche piccolissimo messo davanti allo schermo può rimanere per ore assorbito dalle immagini?
Una risposta che mi sembra convincente ce la dà Michel Desmurget, ricercatore in neuroscienze, i cui contenuti mi sono serviti come base per scrivere altri due articoli sugli effetti del televisore (TV e violenza: cosa dicono le neuroscienze e TV e sviluppo cognitivo: cosa dicono le neuroscienze). L’essere umano è dotato di due tipi di attenzione: Continua a leggere “TV e difficoltà di concentrazione”
Ti amo, mamma pelosetta
Metti una scimmietta separata dalla sua mamma in una gabbietta. Metti da una parte una fredda macchina che distribuisce latte da un biberon e dall’altra un morbido peluche peloso.
Il crudele Harry Frederick Harlow provò negli anni Sessanta che la scimmietta, al cibo, preferisce la sensazione di pseudo-calore fornitagli dal peluche.
Che sia di conforto a quelle mamme che si sentono denigrate nel loro ruolo di madre allattante, ridotte dal loro vorace neonato a giganti mammelle gambo-munite.
Vostro figlio vuole voi. Prima di tutto. Il vostro calore e le vostre pelosità protettive. Molto di più che l’adorato seno.
A partire dagli orribili esperimenti perpetrati da questo ricercatore, che in nessun modo avvallo eticamente, altri studiosi hanno proseguito nello studio sull’importanza delle figure di riferimento per i neonati, avanzando la teoria dell’attaccamento.
Secondo questa teoria, il dottor Bowlby in Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, grato anche ai lavori dell’etologo Konrad Lorenz, differenzia cinque competenze innate che permettono al bambino di creare un legame di attaccamento con la madre:
- La suzione (tettare);
- La capacità di aggrapparsi (riflesso di prensione);
- La capacità di piangere;
- La capacità di sorridere;
- La capacità di seguire con lo sguardo.
Sono le competenze offerte direttamente dalla natura per sviluppare la prima relazione solida con la sua caregiver, la sua “figura di riferimento” (naturalmente la madre, ma in mancanza di essa, altre figure sono possibili).
Se nei primi mesi, il neonato fa riferimento essenzialmente alla sua caregiver primaria, passati i sei mesi, comincia ad includere altre persone che hanno meritato questo statuto fornendogli una presenza stabile e duratura. Dopo i due anni, i bambini cominciano ad utilizzare le loro figure di attaccamento (generalmente la cerchia familiare) come una base sicura a partire dalla quale potranno esplorare il mondo, allontanarsi sicuri sapendo che potranno tornare.
La psicologa Mary Ainsworth, tra gli anni Sessanta e Settanta, definisce tre schemi, al quale se ne aggiungerà successivamente un quarto: lo schema di attaccamento sicuro, quello ansioso, quello evitante e infine quello disorganizzato.
Senza entrare nel dettaglio, questi schemi evidenziano il comportamento di un bambino confrontato alla separazione dalle sue figure di riferimento. Ad esempio, un bambino che ha sviluppato uno schema di adattamento sicuro, dimostra sconforto al momento della separazione, ma torna a giocare serenamente poco dopo, manifestando però grande gioia con il ritorno delle figure di attaccamento.
Affinché si realizzi questo schema ottimale, il bambino deve aver acquisito la certezza di poter contare sull’amore incondizionato dei caregiver, che ci saranno sempre e comunque nel momento del bisogno.
Queste ricerche avvallano la tesi che i cuccioli non “prendono il vizio”, né diventano irrimediabilmente dipendenti, se li teniamo in braccio ogni volta che ne comunicano il desiderio, se li cresciamo ad “alto contatto” (allattando, tenendoli spesso addosso, rispondendo ai loro pianti e ai loro sorrisi – assecondando dunque le cinque competenze innate sovra citate), affinché si crei quel legame di attaccamento sicuro che permetterà poi loro di affrontare il mondo in modo autonomo.
Un bel cambio di prospettiva, che ci permette di guardare con una lente nuova i momenti in cui il bambino ci chiama ancora e ancora e ancora e ancora, per motivi che ci appaiono irrilevanti, avendolo già nutrito.
Non ha fame, non fa i capricci, no.
Sta verificando ancora e ancora e ancora e ancora se è proprio vero che può contare su di noi, se è proprio vero che ci saremo sempre quando ne ha e avrà bisogno. Ossia, adesso.
E adesso. E adesso. E adesso, e adesso, e adesso e adesso e adesso e adesso e adesso ………… …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. ……………………………………………………………………………………………………….. e adesso?
Prologo di una lampadina. Storiella.
C’erano una montagna di fagiolini da mondare. Quale migliore occasione per la mamma del mio compagno per narrarmi una storia che gli raccontò forse un suo zio.
Mentre le mie dita pulivano i fagiolini, il mio bambino interiore, intuendo l’inizio di una storia, si era immediatamente fiondato a sedersi in terra, intorno al caminetto immaginario, con gli occhi e le orecchie grandi grandi.
Il piccolo Edison tornò un giorno da scuola con una busta chiusa da consegnare alla mamma.
“Mamma”, disse il piccolo Edison inquieto, “la maestra mi ha detto di darti questa lettera“.
La mamma tirò fuori il naso dai fornelli, si andò a lavare le mani, inforcò gli occhiali e aprì la lettera. La lesse una volta silenziosamente, seriamente, sommessamente. Poi alzò lo sguardo verso il figlio, che attendeva fremendo e un po’ tremando, intuendo la gravità del momento.
La mamma rigettò gli occhi nella lettera e cominciò a leggere ad alta voce:
“Cara la mia Sig.ra Edison,
Mi rammarica doverLe comunicare quanto segue, ma non siamo purtroppo nelle condizioni di agire diversamente.
Suo figlio è sveglio, intelligente, sensibile. Sembra strano doverlo dire così, ma troppo sveglio, intelligente e sensibile perché io possa dargli il seguito che merita senza trascurare i suoi compagni. Le chiedo quindi di tenerlo a casa per potergli fornire un’istruzione adeguata alle sue capacità“.
La mamma chiuse quindi lentamente la lettera e lentamente la ripose in un cassetto della madia.
Il piccolo Edison stupito dal contenuto, tirò un sospiro di sollievo. La mamma lo abbracciò e andarono a mangiare la minestra.
Gli studi a casa furono all’altezza delle sue capacità. Da grande diventò uno scienziato ed inventò la lampadina che rivoluzionò la vita degli uomini e donne di questa Terra.
Un giorno, quando il piccolo Edison ormai era diventato grande, la mamma morì. Mettendo a posto le sue cose, il figlio aprì la madia e vi trovò la lettera della sua maestra. Con un po’ di nostalgia la aprì per rileggerla:
“Signora Edison,
mi rammarica doverLe comunicare quanto segue, ma non siamo purtroppo nelle condizioni di agire diversamente: il quoziente intellettivo di suo figlio difetta. Non abbiamo insegnanti speciali a sostegno e non possiamo rallentare il programma per adeguarci alle sue carenze. Siamo spiacenti di doverLe comunicare che non possiamo più accoglierlo nella nostra istituzione. Cordiali saluti.”
Un brivido lo attraversò. Una corrente d’aria che veniva dagli infissi chiusi male, o da dentro di lui. E poi subito dopo il calore del ricordo della mamma.
Sorrise e mormorò qualcosa. Forse, un “grazie, mamma“.
Fiabe, favole, miti e leggende. Non si va a cercare se siano veri o meno, ma ci si lascia attraversare dal racconto e dall’insegnamento che si portano dietro.
O meglio, si prendono per vere, perché come dice Calvino, in fondo lo sono:
“Io credo questo: le fiabe sono vere, sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna”.
Dalle fiabe, favole, miti e leggende ci si lascia cullare, a volte spaventare. Entrano in noi e insidiano domande, quesiti, dubbi, che sono alla base dell’imparare. Sciolgono alcuni nodi e altri li lasciano da sciogliere a chi li ascolta.
Educano, prima di tutto all’ascolto. Svegliano l’immaginario, più di ogni film d’animazione. Sono stati per secoli la nostra memoria.
Oggi svaniscono, sempre più malamente.
E se fosse un po’ da cercarsi anche qui, la perdita della memoria sociale e di certi valori che si avverte sempre più nelle nuove generazioni “postmoderne”?
Marachelle da catalogo. Quando eravamo bimbi birbi.
L’AFPC, l’Amicale del Non far Questo Non far Quello (“l’Amicale du Fais Pas Ci Fais Pas Ça“) ha lo scopo di far riconoscere la Marachella dell’Infanzia come Patrimonio Mondiale Immateriale dell’Umanità. Il plico da consegnare all’Unesco è quasi pronto, manca ormai da raccogliere qualche manciata di marachelle, affinché la raccolta e catalogazione arrivi a 10000 esemplari.
Genitori, non fate quella faccia da angioletti: il dispositivo altamente tecnologico posto all’entrata del nostro museo itinerante saprà scovare in voi la marachella nascosta. Se l’avete davvero dimenticata, troppo impegnati a perseguire sulla retta via dell‘Adultità di cui siete ormai massimi detentori, non temete… gli Agenti dell’AFPC vi aiuteranno a liberarvi, ad alzare il magico sasso sotto il quale brulicano decine e decine di marachelle gettate nel dimenticatoio. Sono sicura che riscoprirle e raccontarle sarà fonte di grandissimo piacere, un abbraccio al vostro bimbo interiore a cui è bene, almeno di tanto in tanto, andare a fare un salutino.
Sì perché per quanto siano il terrore di genitori e affini, le marachelle sono quasi sempre divertenti da ricordare, da condividere nei più fini dettagli. Sono l’espressione dell’immensa creatività che ci caratterizzava da piccoli, della curiosità, del coraggio di cercare il limite e superarlo, della capacità dei piccoli di vedere il mondo con una lente che arrotonda gli angoli e lo rende un terreno di infiniti divertentissimi strappi alla regola.
In cinque anni, nelle vesti di agente dell’AFPC, ho forse raccolto un migliaio di marachelle. E qualche migliaio ne ho lette e sentite raccontare dai miei colleghi. Conosco a memoria le categorie, i grandi classici, i metodi per camuffarle. Eppure ogni marachella raccolta riesce a sorprendermi, a farmi sorridere, ad aprire con meraviglia l’anfiteatro dell’infanzia, nascosto e chiuso dentro il corpo dalle nuove sembianze di persona “seria”.
La marachella è, a modo suo, un mezzo educativo che permette di confrontarsi e conformarsi a quei limiti che renderanno poi il Marachellante una persona integrata nella società. Anche quando, nella sua forma forse meno accettabile dall’Io adulto, sfocia in piccole forme di sadismo verso insetti, fratellini, amichetti più deboli e animali di compagnia, è spesso il primo confronto, tramite le reazioni e le conseguenze, con la sofferenza che si può provocare all’altro; un modo per scoprire l’empatia e la compassione (che questo ci aiuti a dissipare il senso di colpa che talvolta accompagna il ricordo di alcune marachelle).
Avete tagliato i capelli di vostra sorella mentre dormiva? (Sarà forse per questo che è diventata parrucchiera?) Avete colorato di verde il vostro cagnolino? Siete scappati in piena notte vestiti solo della pelliccia del vostro peluche per scoprire il mondo? Avete riempito di cavallette lo zaino della vostra compagnuccia preferita? Ingurgitato misture di verme squagliato e sale per provare che eravate i più coraggiosi o cucinato torte di pupazzetti di plastica dopo aver messo il sale nel caffè della mamma?
Se proprio non ve ne viene in mente nessuna, respirate, chiudete gli occhi, tornate ai vostri tre, quattro… nove anni (tra i nove e i dieci si situa l’età d’oro della marachella…), pensate a quell’estate speciale in piena campagna, o a quel maestro particolarmente severo… Ancora niente? Respirate, lasciatevi il tempo, lasciate che il vostro piccolo io esca fuori a raccontarvele. E accoglietele con un sorriso. Sono la prova della vostra ingegnosa creatività.
Il museo itinerante della marachella: www.lachasseauxbetises.be.
(L’immagine in evidenza viene dal “Catalogue de bêtises (très) culottées
” d’Elisabeth Brami e Serge Bloch).
“Sì, vabbè, ma da uno a dieci, quanto mi dai?”. Bocciature e voti a scuola.
Non credo nei banchi di scuola che anchilosano i corpi fatti di movimento dei bambini;
Non credo nei voti, né positivi né negativi, che riducono il bambino ad una griglia numerica inibendo le potenzialità individuali; spezzando l’autostima; riducendo il piacere di imparare, al desiderio di una ricompensa o alla paura di una punizione; creando una società fondata sulla concorrenza e competizione (se c’è un migliore, c’è un peggiore);
Non credo nei programmi che non tengono conto della realtà, dei diversi tempi di apprendimento, delle reali esigenze e sete di conoscenza del bambino e del posto che il bambino occuperà nella società di domani;
Non credo nello studio delle materie prese individualmente, che chiudono il sapere in compartimenti stagni invece di valorizzare le infinite connessioni tra le scienze, tra le cose, che ci insegnano che siamo parte del tutto.
Sarei tentata di dire che non credo neanche nella scuola, ma da una parte sono consapevole che bisognerebbe rivoluzionare tutto il sistema, che, detta in modo riduttivo, bisognerebbe smettere di fondare (un esempio tra tanti) la nostra repubblica sul lavoro (e quale lavoro?) per incentrarla sull’essere umano, e dall’altra, so che ci sono delle buone alternative, già operative nel mondo, che tengono conto di tutti i “non credo” di cui sopra.
Penso all’asilo nel bosco, agli approcci pedagogici libertari, alla pedagogia Montessori, al sistema scolastico finlandese.
Proprio in Finlandia – per chi ama i migliori – già campione nella classifica internazionale Pisa, è in atto una riforma che prenderà ufficialmente inizio nel 2020, che prevede un radicale cambio di paradigma: via le materie, gli insegnanti diventeranno dei facilitatori per un apprendimento pluridisciplinare che vedrà incontrarsi, nello stesso momento, i saperi propedeutici ai temi trattati.
Questa nuova legge che crea tanta ansia e che abolisce le bocciature alle medie e alle elementari non è che una goccia nel mare, verso una scuola che diventi un bel posto dove imparare. Peccato che si tocchi la superficie senza intaccare il fondo del sistema. Peccato che si continua a insegnare in modo frontale, con bambini in esubero possibilmente inchiodati alle sedie. Togliere la bocciatura (senza tra l’altro eliminare i voti) è solo un modo di privare gli insegnanti di un’arma nella guerra del “devi imparare” (quello che dico io, come e quando lo dico io) tra allievi e professori.
Niente di nuovo, né di davvero buono dunque, per quegli insegnanti che nonostante gli infiniti ostacoli imposti dalla cultura imperante, riescono ugualmente a fare il loro mestiere con tanto amore da trapelare negli allievi, da trasmettere al di là delle righe dei quaderni, la bellezza rotonda dell’imparare cose nuove, dell’esplorare le possibilità di quella conoscenza non pedante che “li renderà liberi”.
Fa ancora eco in me il bambino che mi porta alla fine del corso di teatro un disegno. Con un gran sorriso me lo porge e mi dice: “È per te”
Io: “Grazie, che bello, questa sono io!”
Lui: “Da uno a dieci, quanto mi dai?”
Io: “…”
Io: “È un regalo, un gesto bellissimo, è un gesto di gentilezza, d’amore, come si fa a quantificare un sentimento?”
Lui: “Sì vabbè, però, quanto mi dai da uno a dieci?”
I diritti dell’amico immaginario
Calvin è un bambino disobbediente, un po’ crudele, un po’ affettuoso, con eccessi di pigrizia o iperattività, iper creativo, iper curioso, ipersensibile, pieno di domande, di voglia di marachella. Insomma, un bambino normale.
Un bambino con un amico immaginario molto speciale, un pupazzo che in realtà è una bellissima tigre, talvolta un po’ saggia, talvolta completamente allo sbaraglio del gioco col suo inseparabile amico in carne ed ossa.
La genialità della scrittura di questo fumetto sta nel fatto che, come succede nella mente dei bambini, realismo e surrealismo si confondono. I bambini sanno che il loro amico immaginario non esiste, ma questo non sminuisce in nulla la constatazione che esista davvero, che davvero giochi e parli con loro. Così il mostro che è sotto il letto sbava veramente. Le ferite che ogni tanto la tigre Hobbes gli infligge con le unghie quando si azzuffano, esistono davvero, anche se i genitori continuano a vedere un pupazzo di pezza. Insieme, vivono le più divertenti delle avventure, criticano politicamente la gestione del mondo degli adulti con osservazioni disarmanti che meritano di farci arrossire di vergogna, guardano cieli stellati ponendosi profondi quesiti filosofici e, soprattutto, rendono impossibile la vita di due bravi genitori che, però, non colgono la magia del delicato universo di questo ragazzino. Per noi lettori, semplicemente straordinario. Per i suoi genitori, un’incontenibile, certo a volte adorabile, peste.
È un invito ad abbassarsi all’altezza dei nostri bambini, un invito ad approfondire le loro paure, le loro richieste di aiuto, curiosità, problematiche, gioie.
E, soprattutto, un invito a darsi la possibilità di scivolare anche noi in quel modo di vedere il mondo, caleidoscopico, avventuroso, mai insignificante.
Se dovessi partire su Marte con un solo libro, probabilmente mi porterei un album di Calvin & Hobbes.
Devo dire che poi sono un po’ invidiosa del suo amico immaginario. Il mio, un ometto verde che nei numerosi viaggi in auto fatti nella mia infanzia, correva di fianco alla macchina operando incredibili acrobazie, non mi ha mai rivolto la parola. Forse non seguiva neanche me. Magari era l’amico immaginario di un altro. Tanto che un giorno, lo giuro, di punto in bianco, l’ho visto allontanarsi trasversale all’autostrada, ha fatto qualche piroetta ed è sparito dietro una collina. Per sempre. Non si è girato, non mi ha salutato. Mi ha reso molto triste e nei miei viaggi successivi mi sono sentita molto sola. Lo sapevo che mica potevo dire ai miei genitori che se n’era andato, che mi avrebbero presa per pazza. Come non potevo dire loro che Tobia, il nostro cane, non era proprio proprio morto, che ogni tanto veniva a trovarmi e passeggiavamo un po’ insieme…
Ogni tanto guardo ancora la linea delle colline, per vedere se magari riappare, l’omino verde, almeno per scusarsi e congedarsi come si deve.
Credo che sia giusto essere discreti, da adulti, con gli amici immaginari dei nostri bimbi. Non ridere di loro, assecondarli se chiedono di aggiungere un posto a tavola, non far finta di vederli, che mica sono scemi, lo sanno che non ci sono, ma accompagnarli nella loro rabbia, se hanno litigato e nella loro tristezza se se ne sono andati. Perché le emozioni che provano, quelle, sono proprio vere.
E il vostro amico immaginario, è ancora lì con voi o se ne è andato?
Il piccolo Nicolas. Un libro pop-up.
No, cioè, sì vabbè, mi si attorciglia la lingua perché questo libro pop-up mi si porta via tutti gli ooooooooooh di stupore, quelli corti corti come un singhiozzo, quelli lunghi lunghi come un’ola, me se li porta talmente tutti via che mi finiscono le o dal mio repertorio e c*minci* a parlare senza, e diventa imbarazzante, all*ra zitta zitta mi infil* in un c*rs* di y*ga che là la gente è rilassata e gener*sa e mi freg* qualche oooooooommmmmmmm per recuperare (solo che ora ho un po’ di m in esubero, se vi servono fate un fischio, possono semmmpre servire soprattutto per immmmprecare nei giorni storti).
Ché questo è davvero un libro mmmeraviglioso.
Ogni pagina un universo che si costruisce sotto i mmmiei occhi, così pieno di dettagli, così pulito nel suo bianco e nero e rosso, che l’occhio si perde tra le linee, scopre segreti nascosti e lascia sfuggire un altro piccolo oh!
Il testo è separato dalle immmagini, mma devo dire la verità, che persa in quella ricchezza, la storia è diventata per mme di ben poca importanza. Tutta la mmia curiosità della primma lettura è stata assorbita dal pop-up e per il testo ci sono tornata più tardi, quando avevo un po’ saziato la foga di vedere cosa si celasse dietro la prossimma pagina.
Non è un libro per bimmbi piccoli perché oltre ad essere delicato come ogni pop-up, il piccolo Nicolas è proprio prezioso…
Se vi piace il genere, fatevi questo regalo, da condividere certo con i vostri figli quando riusciranno a gestire il desiderio di strappare tutto con le mmmanine.
È d’uopo una breve presentazione: le petit Nicolas è un personaggio nato nel 1960, conosciutissimo in Francia, creato dall’autore René Goscinny e disegnato da Jean-Jacques Sempé. La particolarità sta nel rappresentare il punto di vista del bambino (di circa 9/10 anni) e non, come più di consueto, del narratore adulto. Uno stile che mi piace molto e di cui farò certamente altri esempi nei miei prossimi articoli.
Le Petit Nicolas : Un livre pop-up in originale in francese, non ne ho trovato la traduzione in italiano, ma solo in tedesco (che vedete nelle foto) e giapponese. Se siete tentati, io non mi farei inibire dall’eventuale limite linguistico perché è tanto il piacere della composizione visiva che la non comprensione del testo in nulla ne diminuisce il piacere.