Per un terreno fertile

Le sei tappe per una relazione sana coi nostri figli (secondo A. Faber e E. Mazlish)

Sono sei le tappe per cominciare a migliorare la relazione coi nostri figli, di qualsiasi età. Ce lo dicono Marylin Segat e Laurence Demanet, in una conferenza tenutasi la settimana scorsa ed organizzata dall’Associazione dei Genitori delle Scuole Europee di Bruxelles. Lo scopo della conferenza era di dare una prima infarinata all’approccio di educazione positiva di Faber-Mazlish, autori, tra l’altro, di “Come parlare perché i bambini ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino” e di “Come parlare perché i ragazzi ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino” .

Cominciamo con un banale esempio tipico di conflitto casalingo:

Franca, i tuoi giochi sono tutti sul tappeto, mi fai il piacere di metterli a posto?“. Tattica della gentilezza. Aspettiamo un po’, non funziona.

Franca, alla tua età sei capace, direi, di metterli in ordine! Ti sarà poi più facile ritrovarli“. Tattica della ragione. Aspettiamo un po’, non funziona.

Il nervosismo sale: “Franca, te l’ho detto mille volte di mettere a posto, te li butto tutti questi giochi, sei inaffidabile, stasera te li scordi i pancakes!“. Magari la tiriamo anche un po’ fisicamente per farle vedere il disordine. Siamo arrivati ai metodi della forza, del ricatto, della punizione, dell’aggressività.

Abbiamo gridato, ci sentiamo in colpa, abbiamo incrinato la nostra relazione con nostra figlia, magari mettiamo pure a posto noi e ci andiamo a scusare con lei, mentre piange disperatamente in camera sua.

Fantastico. E domani? E dopodomani?

La stessa storia.

Le riflessioni educative che seguono hanno il principale obiettivo di mettere al centro delle nostre preoccupazioni la salvaguardia della relazione, e di sapere, quando la incriniamo, come riparare.

La prima tappa essenziale, senza la quale le altre non servono a nulla, è l’empatia.

Cercare di capire ciò che l’altro prova. Ascoltarlo, lasciare che si esprima, senza farlo sentire giudicato. In questo modo si fa raffreddare il termometro emotivo che, in piena crisi, non lascia spazio alla razionalità. Se non si abbassa questo “troppo pieno” emotivo, sarà inutile tentare di comunicare. Lasciar calmare la persona accogliendone l’emotività, entrare in contatto attraverso un ascolto attivo, senza provare a trovare una soluzione, a dare giudizi. Essere giusto lì per l’altro.

Una volta che l’empatia ci ha permesso di connetterci all’altro, possiamo passare alla seconda tappa: suscitare la cooperazione.

Tra tutte le azioni che vorremmo che facessero i bambini o ragazzi di cui ci occupiamo, e quelle che invece vorremmo non facessero, le nostre giornate sono un campo minato di bombe ad orologeria, pronte a scoppiettare in serie in ogni momento (specialmente quando siamo più stanchi o abbiamo priorità che vengono ostacolate dal loro comportamento).

Se le regole sono chiare dall’inizio (ad es. prima di andare a dormire ci si mette il pigiama e ci si lavano i denti), non c’è bisogno di mille parole moralizzatrici, né di dare ordini che offenderebbero o avvilirebbero chiunque (quanta voglia avete di far piacere a qualcuno che ha un uso profuso degli imperativi, dimenticando il potere delle paroline magiche e della gentilezza?). A volte basta solo un promemoria verbale (o perché no, anche fisico, mettendo al muro delle allegre liste con oggetti calamitati da spostare quando le operazioni sono andate a buon fine). Invece di “Carlo!! Sono le nove! Ancora non ti sei messo il pigiama! Come al solito… quante volte te lo devo dire… non mi fare arrabbiare...” (e chi più ne ha più ne metta), proviamo con un semplice minimalista “pigiama!“. Senza verbi imperativi, senza chiamarlo per nome (caricato emotivamente), giusto un post-it vocale. Ovviamente se il sottotesto è “(Carlo, mettiti questo cavolo di) PIGIAMA (!!!)“, ci sono poche probabilità di avere migliori risultati.

Qualsiasi cambiamento che mettiamo in atto per migliorare la nostra relazione deve essere guidato da un sincero ed amorevole desiderio che ciò accada, non dalla sola speranza che le tecniche funzionino e che i nostri figli facciano quello che vogliamo. Se la volontà è questa, state certi che nulla cambierà, poiché nessuna relazione sana può fondarsi sulla dominazione e la strategia opportunista (mi comporto così perché voglio ottenere qualcosa). In altri termini, queste proposte devono essere prese come mezzo per cambiare se stessi, superare i propri limiti e le cattive abitudini acquisite, insomma, per diventare una persona migliore. Il lavoro è centrato verso di noi, non verso l’ottenimento di un cambiamento rapido dell’atteggiamento altrui (che avverrà certamente se noi cambiamo il nostro).

La terza tappa ci impone proprio di superare i retaggi educativi del passato: eliminare ricompense e punizioni (ho già proposto diversi post su questo tema, ne cito due per approfondimento: “No a premi e punizioni, lo dicono i toltechi“, “il culetto è mio, è mio perciò“).

Marylin Segat e Laurence Demanet propongono un esempio calzante per spiegarci l’inutilità delle punizioni: immaginate che siate su una strada con limite di velocità di 90km/h. C’è nebbia, siete in ritardo, date un colpo di acceleratore e l’autovelox vi fotografa a 120kg/h. Quali sono le vostre reazioni? In genere imprecate. Poi, dopo un po’, ricevete la multa a casa e vi arrabbiate, dite che non è colpa vostra o che siete proprio sfortunati, accusate il Comune di fare soldi su di voi, che siete un bravo cittadino che paga le tasse. Forse non la pagate, la multa, forse mandate una lettera di reclamo. Forse pagate. E la volta successiva che vi troverete a passare davanti al luogo incriminato, farete attenzione perché vi ricorderete della multa (cercando magari strategie per “fregare”, come rallentare per poi riaccelerare), e così ancora per sei mesi . Poi tra un anno, avrete probabilmente dimenticato questo fattaccio, e ricomincerete. Ebbene, in tutto questo lasso di tempo, vi è capitato di essere sfiorati per un attimo dal pensiero che se c’è quel limite, è per la sicurezza vostra e degli altri? Avete pensato che avreste potuto avere un incidente e rovinare la vita vostra o di qualcun altro? Non ci avete pensato non perché siete delle cattive persone, ma perché la punizione ha attirato la vostra attenzione verso qualcosa di molto lontano dal fatto in sé. Qual è la relazione di causa effetto tra “è pericoloso andare veloce qui” e “pago una multa”?

Siamo in ritardo, chiediamo a nostra figlia di sbrigarsi a finire la sua colazione perché dobbiamo uscire e dalla fretta lei fa cadere la tazza, che si rompe in mille pezzi in terra, schizzando la nostra maglia. Il ritardo resta ritardo qualsiasi sia la nostra reazione nei suoi confronti, ma la relazione presente e futura che cuciamo con lei può profondamente cambiare se, invece di urlare, accusare, mettere delle etichette (maldestra, incapace, disubbidiente…), ordinare, punire, etc… scegliamo di permetterle di riparare:

Oh caspita! La mia maglia! Dai, sbrighiamoci, io mi vado a cambiare e tu pulisci per terra con questo straccio per piacere, che se andiamo veloci possiamo ancora arrivare in tempo!“.

La possibilità di riparare ai propri errori (in modo pertinente, in diretto legame di causa-effetto con l’accaduto) dà fiducia al bambino, lo responsabilizza, lo rende partecipe della sua crescita, laddove la punizione crea sentimenti di inferiorità, sottomissione, desiderio di ribellione e vendetta e soprattutto la frustrazione di non poter fare nulla per tornare indietro.

Spesso se ci si approccia all’altro con empatia, se accolto amorevolmente, quando l’emotività lascia spazio alla ragione, la soluzione viene proposta proprio dalla persona che ha commesso l’errore: in condizioni favorevoli, si è colti da un desiderio di cooperazione, di ristabilire l’armonia, del tutto insiti nell’essere umano (animale sociale).

La quarta tappa è l’autonomia.

Spingerlo a fare da solo (il bambino tende naturalmente verso l’autonomia, lo dice continuamente da piccolo che vuol fare da solo, non ascoltarlo, fare al posto suo per la troppa fretta di continuare a srotolare i propri impegni quotidiani, creerà una dipendenza e insicurezza difficili da sanare). Ne va della loro autostima, della loro capacità a trovare soluzioni, a partecipare creativamente ed in prima persona alla vita.

Questa tappa ci richiede di sviluppare il talento della relativizzazione. Accettare che se la sua camicia non è intonata al pantalone perché il nostro pargolo ha scelto dei colori pugno-nell’occhio, va bene così. Se la scarpa è allacciata male, metà della cena è per terra (ma l’altra metà fieramente nella sua pancia), va bene così. Aspettiamo che i nostri piccoli ci chiedano aiuto o un consiglio quando ne hanno bisogno. Se sono per i fatti loro e ci mettono venti minuti a tappare una bottiglia, compriamoci una pallina antistress o un cubo di rubik e concentriamoci su qualcos’altro, fino a quando non ci chiederanno loro una mano. E anche lì, risolviamo per loro solo la metà del problema, affinché partecipino attivamente alla risoluzione. Altrimenti domani non ci provereranno più. Si considereranno incompetenti. E questa auto-etichetta rischierà di ampliarsi a macchia d’olio ogni qualvolta altre situazioni verranno a rafforzarla, con danni alla loro personalità difficilmente recuperabili in seguito.

Quinta tappa: complimenti e autostima.

Per approfondire, vi invito a leggere i post “Autostima e fiducia in se stessi” e “Mamma, non mi dire che sono bravo!“.

Invece di dire “ma quanto è bello il tuo disegno, dammelo che lo attacco sul frigo“, proviamo piuttosto a rispondere al suo bisogno di attenzione da parte nostra interessandoci davvero a quello che ha fatto: “Oh! Qui hai fatto un cerchio e una linea, e qui c’è una curva! Hai usato il blu, il verde, il giallo!“. Descriviamo, invece di esprimere un giudizio (per quanto positivo esso possa essere). E se proprio all’inizio non riusciamo a farne a meno (sono riflessi duri a morire), cerchiamo di esprimere piuttosto quello che sentiamo: “Ma che piacere che mi fa, vedere tutti questi colori!“. Ricordiamoci che la loro libertà mentale dipende da quanto indipendenti sono dal giudizio altrui. E tutto ciò che esce dalla nostra bocca, che siamo le loro figure di riferimento e di attaccamento principali, li marcherà per sempre. Farebbero carte false per meritare il nostro amore, il nostro apprezzamento, e ad ogni: “Che bravo che sei” è insito imprescindibilmente un subdolo “Allora non sono bravo se non faccio così“.

Sesta tappa: smetterla con le etichette.

Lo abbiamo già accennato prima, se diciamo a nostro figlio che è maldestro (o lo facciamo sentire tale quando ad esempio ha fatto cadere la tazza della colazione in terra, privandolo della possibilità di riparare con dignità) questa etichetta gli si attaccherà addosso così forte da diventare magicamente una realtà. Le parole hanno questo potere (consiglio I quattro accordi. Guida pratica alla libertà personale. Un libro di saggezza tolteca). Aboliamo il verbo essere (SEI una chiacchierona), ponendo invece l’attenzione sul comportamento, che è transitorio (oggi hai proprio tante cose da dire).

Ricordiamoci che i nostri bambini e adolescenti fanno “marachelle” il più delle volte per inviarci un messaggio, se tale input non viene recepito, i modi di esprimerlo si moltiplicheranno. La punizione, il giudizio, il mettersi al di sopra di loro, ci allontanano dalla possibilità che questo messaggio venga espresso in un modo comprensibile per noi.

Sta a noi scegliere se vogliamo investire sulla relazione, in modo duraturo, o su un’apparente sensazione di essere ubbiditi o di avere un rassicurante potere su di loro.

Non siamo in guerra. Siamo tutti sulla stessa barca…

Per un terreno fertile

Il nostro cervello non è come il loro. Ovvero, i bambini non ci mettono alla prova.

Ancora oggi una crisi. Ha tre, quattro o cinque anni. Si sveglia, mi fa richieste improbabili o che sa che sono vietate. Oppure mi chiama per aiutarlo a fare qualcosa e quando arrivo rifiuta il mio aiuto. Ma allora lo fa a posta? Mi fa saltare i nervi! Mi mette alla prova?

I. Filliozat, psicoterapeuta, risponde con un gran “no“. A quell’età il bambino testa se stesso, la comunicazione, il mondo intorno in relazione a quello suo, interiore. Filliozat ci dice chiaramente (espresso a parole mie, in modo molto libero): “Ma perché, se ogni mattina è la stessa storia, se ogni mattina ti chiede cose improbabili, tu, puntualmente, ogni mattina gli dici di no, con quelle ciglia aggrottate? Eppure lo sai che quel no creerà una crisi, un vortice che renderà impossibile vestirsi, fare colazione, lavarsi i denti, una reazione a catena che vi porterà, ancora una volta, a passare un pessimo momento insieme, di reciproca violenza verbale e fisica“.

E quindi? Direte voi, quindi dovrei dargliela sempre vinta? No.

Per un terreno fertile

Montessori e buone maniere. Equilibrismi tra impulsi e inibizione.

Nella scuola montessoriana dove collaboro, mi è stato chiesto l’anno scorso di occuparmi del capitolo delle “buone maniere”, perché sarei stata, secondo la direzione, la persona più adatta a tale scopo. Ho storto il naso e dopo aver riflettuto seriamente a come avrei potuto proporlo, ho lasciato perdere. Da una parte perché, nell’idea di buone maniere c’è una formalità con la quale non vado molto d’accordo, dall’altra perché, i modi che mi venivano in mente, avrebbero, a mio avviso, dato piuttosto voglia di infrangerle che di rispettarle.

Per un terreno fertile

Non in suo nome. Castighi divini e integrità del bambino.

Ero al parco, placidamente seduta su una panchina, mentre qualche gridolino più in là, mio figlio giocava col papà. 

Due cordiali e sorridenti donne mi si avvicinano e mi chiedono di fare due chiacchiere sulla religione. Mi citano passi delle sacre scritture, ci confrontiamo su come il cambiamento climatico altro non sia (per loro) che l’avverarsi della profezia divina. In fondo fin qui ci può stare, modi diversi di interpretare la realtà, di dare un nome alle cose. Poi però si finisce a parlare di educazione. Che i bambini e i genitori non sono più come quelli di una volta. Che le sacre scritture dicono che dall’alto vengono chiare prescrizioni pedagogiche di minaccia e punizione, di vile mescolanza psicoanaliticamente pericolosa tra amore e violenza:

“Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti”. (Ap 3, 19)

foto di Alessio Lin

 “Certo“, mi dice la più giovane, “mica si arriva subito alla sculacciata (ché una sculacciata non ha mai fatto male a nessuno), prima si prova con la voce grossa, poi si provano varie punizioni, poi se proprio non funziona… perché altrimenti dove andiamo a finire?“.

Per un terreno fertile

Korczak. Il diritto del bambino ad essere amato.

Sapeva che sarebbero venuti.

Per l’occasione, fece rammendare i loro abiti migliori. Fece aggiustare strumenti, giocattoli, i loro oggetti di valore. Il giorno del loro arrivo, i bambini della Casa dell’Orfano erano vestiti di tutto punto. Disse ai soldati dell’esercito nazista di lasciare indietro i cani latranti, che avrebbero spaventato i suoi allievi. Disse loro di non usare violenza, perché li avrebbero seguiti senza opporre resistenza. Quel giorno le strade del ghetto di Varsavia si riempirono del suono degli strumenti di un ordinato corteo di bambini bellissimi. La dignità che emanavano furiosamente e la ferita che lasciarono aperta negli occhi di chi li vide, non dovette essere estranea alla rivolta del ghetto del 18 gennaio 1943, cinque mesi dopo.

Arrivati ai binari dove il treno per il campo di sterminio di Treblinka li attendeva, narra la leggenda, un soldato nazista si avvicinò al maestro e gli disse: “Lei no, signor Goldszmit, Lei è stato il mio insegnante all’università, Lei non deve salire sul treno”.

Si tramanda che lui rispose: “S’è forse mai vista una madre che lascia i figli ad uno sconosciuto? Questi 200 bambini, sono i miei bambini”.

E salì con loro. Fine della storia.

Comincio dalla fine, perché qui più che mai altrove, le parole si tramutano in atto d’amore. Korczak (pseudonimo di Goldszmit) lo diceva, non ci si può occupare di un bambino se non lo si ama. 

Amarli sempre e comunque, anche se sono delinquenti: “Create per loro le condizioni affinché possano diventare migliori” (Korczak, Il diritto del bambino al rispetto).

Non li si ama, se non li si considera in tutta la loro dignità di esseri umani.

Non li si ama, se non li si rispetta: 

rispetto per la loro ignoranza, 

per la loro laboriosa ricerca del sapere, 

per i loro fallimenti e le loro lacrime. 

Rispetto per i loro averi. 

Per i misteri e gli scossoni del duro lavoro del crescere. 

Rispetto per i minuti del tempo presente, per ogni minuto che passa, perch’esso morirà e non tornerà più (“ferito, sanguinerà, assassinato, tornerà a tormentare le vostre notti” in Il diritto del bambino al rispetto).

Il rispetto ad avere dei segreti. 

Ad essere quello che essi sono.

La sue parole, la sua storia, sono insegnamenti che affondano radici molto più profonde della banale ricerca di un metodo che funzioni per ottenere figli ubbidienti, bravi e buoni. Vanno a scardinare, come era già successo in me con le parole di Montessori e Juul, la macchina educativa infernale di oggi e di sempre.

Non si tratta di trovare la strategia che pur tratti con gentilezza il bambino, non siamo in guerra. Si tratta di andare a ripulire noi stessi, in fondo a noi stessi liberarci di tutte le limitazioni che ci impediscono di considerare il bambino per quello che è, col rispetto che merita.

“Impara a conoscere te stesso prima di pretendere di conoscere i bambini. Misura i limiti delle tue capacità, prima di fissare quelli dei diritti dei bambini” (Come amare il bambino)

Purtroppo viviamo in un’epoca (ce n’è mai stata una migliore?) in cui affermare semplicemente “col rispetto che merita un essere umano”, non vuol dire molto. Questa è l’epoca nella quale si fanno leggi che rendono reato salvare un naufrago in mare. Nella quale si considera buona cosa avere un’arma nel cassetto, che non si sa mai.

“E’ inammissibile lasciare il mondo nello stato in cui l’abbiamo trovato” (1937)

Come al solito, la vera riflessione pedagogica diventa politica, abbraccia tutto il sistema, non può arrestarsi al cambiamento di un paradigma, ignorando gli altri. Come un’ennesima riforma della scuola, cinta da mura alte. E la società fuori, indenne, impermeabile. Senza macchia di responsabilità.

“Facciamo un bilancio: qual è la parte del PIL che dovrebbe tornare al bambino?” Il diritto del bambino al rispetto

Ma no, il bambino non le paga le tasse.

Eppure nasce col suo bel debito “pro capite”.

“Gli facciamo portare il fardello dei suoi doveri di uomo di domani senza accordargli i suoi diritti d’uomo di oggi”. Come amare il bambino

Nel luglio del 1942, il maestro Korczak invitò la collega Esther a mettere in scena coi bambini della Casa dell’Orfano l’opera “Dak Ghar” (l’ufficio postale) di Rabindranath Tagore. Perché proprio quel testo? Esther faceva resistenza, c’erano tante opere più adatte ai loro protetti. Perché lavorare sulla storia di un giovane con una malattia inguaribile che, chiuso in una stanza, riesce, col potere della sua mente e della sua fantasia, a superare l’angoscia del suo destino?

Il diritto del bambino ad essere amato
foto di Janko Ferlic

Perché tre settimane dopo, i nazisti sarebbero venuti a prenderli per l’ultimo viaggio. Korczak lo sapeva, perché i nazisti stessi l’avevano esortato ad andare via, avvertendolo della loro incombente operazione.

Il suo compito di maestro era in quel momento di prepararli alla morte inevitabile. 

Qual è il compito di un educatore, se non quello di preparare il bambino al suo avvenire?

Al suo, non a quello ipotetico di decenni fa.

I programmi che prepariamo per i nostri bambini sono davvero pensati per loro? 

Sono adatti al loro cuore e alla società che troveranno?

Coltivare la felicità, il senso etico, coltivare la terra, preservare l’anima del bambino e del mondo. Andare avanti spinti dai valori, dall’immagine del mondo che vorremmo per loro, non da un esorabile lasciar-fare, lasciar-dire, lasciar distruggere. Se smettiamo di commuoverci per un essere umano che muore, se smettiamo di sovrapporre empaticamente nostro figlio con un qualsiasi altro fanciullo che soffre, significa che dobbiamo urgentemente fermarci e ricominciare da noi stessi. Adesso. Perché oggi è già ieri e ieri abbiamo già sentito e risentito il silenzio della desolazione dopo la devastazione della violenza.

“Il nostro legame più forte con la vita è il sorriso schietto e radioso di un bambino”.

Per un terreno fertile

Sempre in ritardo per colpa dei tuoi bimbi? Qualche alternativa alle incitazioni minacciose.

Posso sostanzialmente dividere in due grandi insiemi le situazioni durante le quali mi trovo a dover/poter imporre la mia autorità per ottenere rapidamente una risposta da mio figlio, con conseguenti crisi di pianto o ostruzionismo: situazioni di reale urgenza e situazioni minori.

Nelle situazioni urgenti ci sono poi dei sottogruppi. In una situazione di pericolo, ad esempio, la mia reazione istintiva è così fisicamente e verbalmente determinata, che mio figlio generalmente capisce subito i segni arcaici dell’urgenza e li accetta (Scotta! Taglia! Schiaccia!). Poi ci sono quelli dell’urgenza sociale o personale, che sono ben più difficili da far comprendere ad un bambino (un appuntamento, l’entrata a scuola o in ufficio, un treno che parte o semplicemente l’esaurimento della dose giornaliera di pazienza) ed è quindi più complesso far accettare al bambino che è ora di muoversi, adesso, senza esitare. Continua a leggere “Sempre in ritardo per colpa dei tuoi bimbi? Qualche alternativa alle incitazioni minacciose.”

Per un terreno fertile

I capricci non esistono

Alla voce “capriccio”, il dizionario Treccani indica:

caprìccio s. m. [dall’ant. caporiccio]. – 1. a. Voglia improvvisa e bizzarra, spesso ostinata anche se di breve durata […]; fare i c., spec. di bambini, fare le bizze.

Cerco allora “bizze”:

biżża1 s. f. [etimo incerto]. – Capriccio stizzoso e di breve durata, senza serio motivo: il bambino fa le b.; non sopporto le sue bizze.

Continua a leggere “I capricci non esistono”

Per un terreno fertile

Perché è così importante imparare a riconoscere le emozioni?

Oggi ho imparato una parola nuova: alessitimia (o alexitimia, dal greco “a-” mancanza, “lexis” parola e “thymos” emozione: letteralmente “non avere le parole per le emozioni“). Costituisce l’incapacità d’identificare, differenziare, verbalizzare e comunicare le proprie emozioni.

In pratica provo un’emozione ma, non sapendola nominare, la subisco.

La dimestichezza con le emozioni è una competenza che potremmo aver acquisito nell’infanzia molto, poco o per nulla.

E vabbè, pazienza, viene da dire.

E invece no.

Questo deficit può essere all’origine, nell’adolescente o nell’adulto, di atti di violenza (incapacità d’autoregolazione, mancanza di empatia), e di dipendenza (impulsività, aggressività, dipendenza da droghe, alcool).

Se non si è capaci di riconoscere le proprie emozioni, non si è capaci di riconoscere nemmeno quelle degli altri. Non si sviluppa l’empatia e senza l’empatia, le competenze per avere una vita sociale e sentimentale soddisfacente.

Generalmente l’incomprensione delle emozioni provate si traduce con vere e proprie scariche emotive (crisi di rabbia, pianti molto intensi), senza essere in grado di capire cosa le scateni, a causa di una debole capacità introspettiva.

Questo è quello che vediamo normalmente nel bambino, il cui sistema nervoso è ancora immaturo per fare le connessioni necessarie al controllo e la comprensione dei suoi stati d’animo.

La mancanza delle parole per… “dire l’emozione” sarebbe responsabile delle risposte violente a situazioni che generano frustrazione, poiché le reazioni violente e impulsive danno una soddisfazione immediata.

Nei bambini rappresenta una tappa, un nodo che va sciolto grazie all’educazione emotiva di cui genitori ed educatori sono responsabili.

Non è possibile crescere dei bambini felici se non li accompagnamo alla conoscenza di sé che, fatalmente, si esprime attraverso il meraviglioso universo emozionale.

E allora come fare?

In fondo le risposte degli studiosi che si sono fatti questa domanda, confermano le mie letture precedenti, che cito nell’articolo “E da un pugno chiuso una carezza nascerà“, nel quale propongo alcuni suggerimenti per affrontare le crisi dei nostri piccoli. In questo articolo, attraverso lo studio di psicologi che si sono concentrati sullo sviluppo della “intelligenza emotiva”, nello specifico, si sottolinea l’importanza d’identificare e far identificare al bambino le emozioni da lui provate, perché questo riconoscimento sta alla base della sua maturazione “emozionale”. J. Gottman, nel suo “Intelligenza emotiva per un figlio. Una guida per i genitori“, lo definisce come un vero e proprio allenamento emotivo che il genitore o l’educatore propone al bambino, attraverso 5 fasi:

1- la presa di coscienza delle emozioni del bambino;

2- il riconoscimento in quell’emozione di un’opportunità d’intimità e d’insegnamento;

3- l’ascolto empatico e la convalida dei sentimenti del bambino;

4- l’accompagnamento del bambino nel trovare le parole per definire le emozioni che sta provando;

5-la determinazione dei limiti e l’esplorazione delle strategie per risolvere il problema in questione.

La base di questo allenamento è certo l’empatia dell’allenatore emotivo. J.Gottman, ci dice:

“Quando i genitori offrono empatia ai loro figli e li aiutano ad affrontare sentimenti negativi come la collera, la tristezza e la paura, gettano tra sé e loro un ponte di lealtà e attaccamento”.

I bambini emotivamente allenati dimostrano la capacità di regolare il proprio stato emotivo, riescono a calmarsi quando sono agitati, a rallentare i battiti del loro cuore più in fretta, sono meno esposti a malattie infettive, riescono a concentrarsi meglio, ad essere più attenti, a relazionarsi meglio con gli altri, riescono meglio a comprendere le altre persone, stabiliscono rapporti di amicizia più solidi con i loro coetanei.

Vale la pena di capirci un po’ di più, no?

Secondo lo psicologo infantile Haim Ginott, non tutti i comportamenti sono accettabili, ma tutti i sentimenti e desideri lo sono.

Per questo essere in grado di entrare in relazione con il mondo interiore dei bambini, connettendosi empaticamente, comprendendoli e mai ridicolizzando o sminuendo le loro emozioni, sono le fondamenta per una crescita emotiva che non mina l’autostima e li accompagna verso la conoscenza di se stessi.

John Gottman individua tre tipologie di genitore, per poi proporci una via più appropriata per una sana educazione alle emozioni:

1- il genitore noncurante, che sminuisce, ignora o sottovaluta le emozioni negative del figlio;

2- il genitore censore, che critica, rimprovera o punisce l’espressione di queste emozioni;

3- il genitore lassista, che accetta le sue emozioni, si dimostra empatico, ma è incapace di proporsi come guida e porre limiti al suo comportamento.

Se riprendiamo, per dare una continuità alle mie ricerche in merito, l’esempio utilizzato nel mio articolo sulla gestione delle crisi (il bambino si mette a piangere perché, nonostante abbia appena mangiato qualche caramella, vuole finire il pacchetto contro il volere della mamma) vediamo come:

a- il genitore noncurante dirà che l’atteggiamento del bambino è ridicolo, che non c’è nessun motivo per frignare e proverà a distrarlo proponendogli di fare un dolce insieme.

b- Il genitore censore rimprovererà il bimbo dicendogli che la mamma ne ha abbastanza del suo comportamento infantile e che se insiste ci prende pure una sculacciata.

c- Il genitore lassista, abbraccerà il bambino, accogliendo la sua collera e la sua tristezza ed entrando in empatia con lui. Gli dirà che è perfettamente normale volere più caramelle. Ma poi si trovererà a corto di idee sul da farsi. Non vorrebbe gridare, né punire, né ricattare il figlio, ma allo stesso tempo fargli finire il pacchetto di caramelle resterebbe un’opzione non praticabile. Forse arriverà alla fine ad un compromesso: ne mangi altre due e poi facciamo qualcos’altro. Ma alla prossima occasione, il problema si ripresenterà probabilmente nello stesso modo.

Il genitore-allenatore, empatizzando col bambino, si comporta come il genitore lassista, ma poi va oltre, proponendosi come guida alla gestione dei suoi sentimenti spiacevoli:

Bambino: Dammi! Ancora! Cattiva!

Mamma: Uh! Ma come sei arrabbiato!

Bambino: Voglio le caramelle, le voglio!

Mamma: Ma ne hai già mangiate tantissime! Sei arrabbiato perché vuoi finire il pacchetto?

Bambino: Sì!

Mamma: Caspita! Penso di capire come ti senti. A volte anche a me capita di volermi mangiare un pacchetto intero di caramelle, ma poi lo so che mi faranno male alla pancia e non posso permettere che questo succeda a te.

Bambino: Ma perché? Io le voglio tantissimo!

Mamma: Vieni qui amore (lo prende in braccio). Mi spiace tesoro ma proprio non è possibile che ti faccia finire il pacchetto perché so che ti farà male. Scommetto che questo ti fa arrabbiare, vero?

Bambino: Sì.

Mamma: E che ti rende anche un po’ triste?

Bambino: Sì.

Mamma: Anch’io sono un po’ triste nel vederti così (lo lascia piangere per un po’, continuando a tenerlo stretto e lasciando che sfoghi le lacrime). Senti che cosa possiamo fare: potremmo cucinare insieme qualcosa di altrettanto buono ma che non ti farà male. Hai qualche idea?

Bambino: Sì, la macedonia!

Mamma: La facciamo insieme?

*   *   *

A prima vista, questa soluzione appare simile a quella del genitore noncurante perché gli offre una soluzione alternativa per distrarlo, ma questo avviene solo dopo delle tappe importanti: il riconoscimento delle emozioni provate, l’accettazione delle stesse e il tempo lasciato per assaporarle, standogli vicino mentre piange. Qui la mamma non cerca di distrarre il bambino dal sentimento, né lo rimprovera per il fatto di provarlo. Le emozioni provate dal bimbo vengono rispettate così come i suoi desideri. Eppure vengono posti i limiti che non si possono valicare. Il bambino ci rimane male, ma è un sentimento che entrambi possono superare insieme. Solo dopo questo percorso, la mamma gli mostra che è possibile andare oltre queste emozioni negative guardando avanti, verso una diversa proposta (ancor meglio se trovata dal piccolo).

Alessitemia. Una parola che non conoscevo e che si rivela preziosissima. Una parola che, da genitori ed educatori, dovremmo scriverla a caratteri cubitali nel nostro quadernetto delle priorità. E’ nostra responsabilità fare in modo che resti solo un paletto-guida dal quale tenerci alla larga.

Per un terreno fertile

E da un pugno chiuso una carezza nascerà

Sì sì, mi sento dire: “A volte la mano prude“.

Capelli arruffati, acufene derivante dai gridi acuti del pupetto, tic all’occhio come quello dello scoiattolino dell’Era Glaciale, vestiti stropicciati dai tentativi di calmarlo. Dov’è finito il tuo irresistibile aplomb? Il tuo stile inconfondibile? Il tuo sguardo calmo e misterioso? Maria Montessori diceva che i bambini sono i nostri Maestri. Questi cosetti che troviamo tanto dipendenti dalla nostra infinita saggezza ed esperienza di vita verrebbero al mondo per obbligarci a confrontarci con i nostri limiti e diventare migliori.

Oggi è proprio il giorno in cui il tuo piccolo prof. ti invita a esplorare nuove possibilità e provare a trasformare quel pugno chiuso che prude tanto e che tra-un-po’-guarda-se-non-la-smetti-diventa-un-bel-ceffone, in un’opportunità di carezza.

Ma come?

Partirei dalle tre tappe di Céline Alvarez. Avete un bimbo piccolo in preda ad una crisi? Inutile provare a ragionarci: la sua corteccia prefrontale, sede delle emozioni, non è ancora sviluppata e in questo momento là dentro c’è un putiferio, folletti fosforescenti che ballano l’alligalli e vulcani in piena esplosione. La prima azione da compiere è compatirlo, consolarlo, prenderlo tra le braccia, confortarlo (“Ti capisco!“, implicitamente “Ti amo e sto con te anche se non sono d’accordo con quello che hai fatto“). Qualsiasi altra azione rischierebbe di peggiorare la situazione. Passata questa delicata fase, il bambino si calma, è il momento di nominare le emozioni che ha provato (“sei tanto arrabbiato?” – da evitare il sottotesto: “perché vorresti strafogarti il pacchetto di caramelline gommose di gelatina di topo di fogna?”). La terza fase è quella della risoluzione del problema, magari proponendogli delle alternative o cercando di trovarle insieme (se vi sputa in faccia a mo’ di mitragliatrice le uvette che gli  avete proposto, mantenete la calma e ricordatevi che il sentiero del successo è cosparso di cacche di pecora…). In questo modo, se dovesse funzionare, il bambino si senterà capito, prenderà confidenza con le sue stesse emozioni – queste sconosciute – e si sentirà rispettato.

Il Dott. Haim Ginott, seguendo le stesse linee guida, propone soluzioni per fissare limiti invitando alla cooperazione. Il principio di base è di utilizzare un linguaggio positivo. In questo caso, l’ordine delle proposte non è per forza cronologico come invece per le tre tappe di Alvarez:

  • Riconoscere e riformulare il desiderio del bambino (“Sembri proprio arrabbiato con mamma“)
  • Ricordare le regole (“Ti ricordi che abbiamo stabilito non più di X caramelline, vero?”)
  • Cambiare la direzione dell’azione o proporgli soluzioni (“ti va di cucinare una superciambella insieme?“, “usciamo a fare un giro?“)
  • Avere compassione per la frustrazione del bambino (“Ti sarebbe piaciuto tanto mangiare ancora caramelline! Come lo capisco, piacciono anche a me tanto! Se non facessero così male! Hai voglia di dirmi o disegnarmi quanto sei arrabbiato?“).

Uno strumento che può risultare estremamente prezioso, e non solo nel bel mezzo di una crisi, è senza dubbio l’ascolto empatico o attivo.

Il principio è quello di indossare, come direbbe Rosenberg, nel suo Il linguaggio giraffa. Una comunicazione collegata alla vita, le orecchie da giraffa (l’animale chgiraffa_cuore_libro2e ha il cuore più grande di tutti), ossia ascoltare senza pregiudizi, in modo amorevole, per fare in modo che il bambino si senta capito, confortato e non sminuito nel suo dispiacere e in questo modo sviluppi l’autostima necessaria per trovare da solo una soluzione. Vediamo un esempio calcato sulla nostra situazione citata precedentemente:

“Bambino: Dammi! Ancora! Cattiva!

Mamma: Sei arrabbiato perché vorresti ancora caramelle?

Bambino: Sì, non mi fai mai finire il pacchetto!

Mamma: Ti piacerebbe mangiarne a sazietà e io ti impedisco di farlo perché ho paura che ti faranno venire il mal di pancia…

Bambino: Sì!

Mamma: E come facciamo?

Bambino: Io le mangio e tu non guardi!

Mamma: Ma poi avrai comunque male al pancino. Ti ricordi l’ultima volta che ti ha fatto male, quando eravamo in montagna?

Bambino: Sì…

Mamma: Ci sono altre cose che ti farebbe piacere mangiare e che non ti facciano male al pancino?

Bambino: Sì, la macedonia!

Mamma: La facciamo insieme?

Qualsiasi sia il percorso che scegliamo per trasformare il nostro pugno in una carezza non scordiamoci che viviamo un’occasione imperdibile per imparare qualcosa e posare un mattone nella costruzione della nostra relazione col bambino, armiamoci di pazienza, indossiamo le orecchie da giraffa e se il primo tentativo non va come vorremmo, soprattutto, non arrendiamoci.

 

Per un terreno fertile

Il culetto è mio, è mio perciò la sculacciata, no no no

Comincio oggi una serie di articoli che vertono sul tema delledito rimprovero woody punizioni e ricompense. In che modo possono danneggiare il piacere di imparare, inibendo lo stimolo naturale della curiosità?

Doveroso iniziare con la Punizione delle Punizioni, il grande archetipo: la sculacciata. Perché no?  Perché no, più in generale, all’uso della violenza (seppur “minima”) per imporre la propria autorità e insegnare a discernere tra il bene e il male?

Ce ne parla in modo molto chiaro Olivier Maurel nel suo La sculacciata. Perché farne a meno. Domande e riflessioni: “Solo qualche decina d’anni fa, si potevano ancora avere dubbi sulla nocività delle punizioni corporee inflitte ai bambini. Oggi non è più così. Le più recenti ricerche sul funzionamento del cervello dimostrano indiscutibilmente che le botte ricevute causano nel bambino lesioni e ostacolano il suo sviluppo“.

Senza entrare nello specifico di tali ricerche sugli effetti della sculacciata sul cervello del bambino (interessanti ad esempio gli studi dello psichiatra francese Muriel Salmona), vediamo perché la sculacciata proprio no no no:

  • La sculacciata è un’ammissione di debolezza, mostra al bambino che le sue provocazioni funzionano e che l’adulto non è stato in grado di controllarsi.
  • La sculacciata rende la violenza banale, sottintendendo che picchiare sia il solo modo per gestire un conflitto. Questa regola, ben assimilata, sarà con molta probabilità applicata a sua volta dal bambino, che sceglierà comportamenti violenti per la risoluzione dei problemi. Avete già vissuto il paradosso di dare una sculacciata ad un bambino che sta picchiando un altro bambino dicendogli che non si usa la violenza?
  • La sculacciata è umiliante: il bambino non si sente amato. Ciò crea inevitabilmente un circolo vizioso, spingendolo verso atteggiamenti sempre più negativi che gli causeranno altre sculacciate e così via. La violenza, non è una novità, chiama violenza, da entrambe le parti.
  • La sculacciata mina l’autostima del bambino che non si sente amato e lo priva del più potente motore di cui dispone per la sua realizzazione personale.
  • La sculacciata è inefficace perché si fonda sulla paura, non sulla comprensione dell’errore. Anche quando l’adulto ha ottenuto ciò che voleva, la lezione non è stata capita, le cause del conflitto sono rimaste irrisolte e la stessa situazione si ripresenterà con tutta probabilità nella prossima crisi.
  • La sculacciata confonde il bambino. Soprattutto quando è accompagnata da frasi del tipo “è per il tuo bene”. Alice Miller ci dice nel suo Dramma del Bambino Dotato: “Quando si colpisce un bambino con la pretesa di formare il suo carattere o per amore, si agisce in modo molto ipocrita (…). In questo modo impara che la violenza contro i deboli è legittima, la rivolta contro i forti vietata. Impara che bisogna mentire ed essere ipocriti, proprio da coloro che pretendono insegnare la verità e la tolleranza”. 
  • La sculacciata è una forma di violenza contro un bambino. E questo basta di per sé per essere naturalmente condannabile.

E se la situazione ci sfugge letteralmente di mano e parte la sculacciata, la soluzione resta tagliarci la mano o fustigarci ripetutamente urlando molteplici “Mea Culpa!”?! Olivier Maurel consiglia piuttosto di spiegarsi col bambino, una volta la crisi passata. Un modo per provare al bambino che la comunicazione resta il modo più efficace per superare gli ostacoli, insieme.