Per un terreno fertile

Il litigio come risorsa

Qualche anno fa, durante un corso settimanale di teatro per bambini (8/9 anni), mi sono trovata a gestire l’equilibrio di un gruppo messo a dura prova in particolare da un bambino che presentava comportamenti molto violenti, anche in situazioni serene di gioco, in assenza di apparente conflitto. La sala a mia disposizione aveva una scaletta che dava accesso ad un piccolo spazio raccolto. Ebbi l’idea di invitare i partecipanti a rendersi in quello spazio, ogni qual volta ci fossero stati problemi da risolvere. Non avevo un’idea precisa in testa, la situazione si era creata spontaneamente. Eppure fu un’esperienza estremamente interessante. Tentai di mantenere, in quello spazio, un ruolo il più neutro possibile. I bambini esprimevano il loro disagio, si giustificavano, cercavano delle soluzioni collettive per il futuro. Arrivammo a disegnare su un grande foglio delle nuvole, sopra ogni nuvola una regola del buon vivere insieme. Purtroppo non ricordo più nel dettaglio, ma rimasi stupita di come fossero capaci di fare delle vere proposte, alcune espresse in modo più poetico di quelle abitualmente concepite dal mondo adulto, ma nessuna usciva da una logica che io potessi non condividere.

Anni dopo, apprendo di scuole democratiche come quella di Summerhill, che hanno messo in pratica sistemi di autogoverno in cui i bambini di qualsiasi età hanno il diritto di espressione a tutti gli effetti e sono attori della costruzione delle leggi e della gestione della comunità. Non parlerò ora di questo, per mancanza di una vera conoscenza sulla materia.

La riflessione che voglio portare oggi è invece concentrata più sul ruolo e le competenze che l’adulto dovrebbe possedere, per creare questo spazio di libertà nel quale il bambino si senta libero e competente nella partecipazione alla vita democratica della comunità di cui fa parte.

Nel mio lavoro con gli adolescenti, ho avuto recentemente la fortuna di approfondire lo strumento delle discussioni filosofiche, in cui il ruolo del moderatore è molto sottile e, trovo, difficile: saper mettere completamente da parte le proprie idee per diventare un perno generatore di domande; essere in grado, quando la discussione lo richiede, di proporre interrogativi che hanno lo scopo di creare nuove riflessioni, nuove domande, di poter lanciare lo sguardo curioso del pensiero in zone alle quali altrimenti non si avrebbe avuto accesso, senza dare lezioni, ma indicando solo la direzione, la porta, la possibilità, il dubbio, il desiderio di esplorazione dialettica e dialogica.

Attualmente cerco di praticare questa difficile ginnastica nelle occasioni che il mio lavoro mi offre, ma gli incontri e le esperienze recenti, mi richiedono di andare più lontano nello studio di questa figura, da competenze multiple e un po’ misteriose, in grado di creare le condizioni ideali affinché le persone possano comunicare nel modo più costruttivo possibile. Penso in particolare, per interesse personale, alle situazioni di conflitto tra bambini.

Il caso mi ha fatto capitare in mano il libro Urlare non serve a nulla. Gestire i conflitti con i figli per farsi ascoltare e guidarli nella crescita, nel quale ho trovato alcuni spunti interessanti per avanzare in questa direzione. E’ stato scritto dal pedagogista Daniele Novara che nel 1989 ha fondato il CPP (Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti).

La prima riflessione che ha attirato la mia attenzione, per banale che possa essere, è l’accettazione del conflitto come momento di crescita. La famosa famiglia del Mulino Bianco, sarebbe ai suoi occhi sospetta e certamente portatrice di problemi irrisolti. Daniele Novara condanna la sovrapposizione che viene fatta tra il concetto di conflitto e quello di violenza. Trattandoli come sinonimi, si veste il conflitto di una negatività che invece non possiede, perché laddove la violenza distrugge, il conflitto, dal latino cum- (con) e fligere (urtare), fa incontrare (per quanto questo incontro/scontro sia carico di una specifica ed intensa emotività).

Leggo a pagina 123:

“Il conflitto è una questione di manutenzione relazionale. E’ nel conflitto che possiamo scoprire e riconoscere le nostre capacità di vivere e accettare le differenze altrui, che possiamo accettare l’opposizione per cogliere altri punti di vista, per immaginare nuovi esiti e individuare accordi più efficaci. La violenza, come la guerra, è esattamente il contrario: un movimento che rifiuta l’altro, eliminatorio del contrasto”.

La violenza tende ad eliminare il problema, mentre il conflitto ha il coraggio di passarci attraverso. E questo cammino, se lo si accoglie come normale “manutenzione relazionale”, ci arricchisce e arricchisce la relazione, andando a pescare più in profondità nella comprensione dei bisogni dell’altro (e di se stessi).

Una tale considerazione del conflitto cambia profondamente l’atteggiamento che da persona esterna si può avere nell’osservazione, ad esempio, di due bambini che litigano. In genere c’è un rifiuto, un invito a non entrare in conflitto, a comportarsi “bene” (quando i bambini vanno d’amore e d’accordo sono etichettati come “bravi”). Eppure, ogni litigio è una risorsa. Talvolta l’intervento esterno è proprio del tutto inutile, perché i bambini (soprattutto se intorno hanno esempi di adulti che sanno litigare) approfittano di questi momenti per allenare le loro competenze ad entrare in conflitto. Talvolta (e sottolineo talvolta) l’accompagnamento dell’adulto può aiutarli, come nel caso delle discussioni filosofiche di cui parlavo sopra, a farsi le buone domande e a trovare la strada migliore per attraversare questo momento.

Daniele Novara propone il metodo maieutico, adatto ai bambini tra i 3 e i 10 anni, che lui riassume con “due passi indietro e due passi avanti“.

“Per riuscire ad attivare veri processi comunicativi tra chi litiga, occorre restarne fuori”,

per far ciò, l’adulto che mi piace chiamare “facilitatore” non deve mettersi alla ricerca del colpevole (ergersi a giudice), né fornire soluzioni al litigio (i bambini sono in grado di farlo da soli). Non si cerca di trovare la risposta esatta, ma di permettere ai presenti di sviluppare la capacità di gestire la situazione. L’adulto potrà allora, dopo questi passi indietro, proporre i due passi avanti: far parlare tra loro del litigio (ribadisco, tra loro, non con l’adulto giudicante) e favorire il raggiungimento di un accordo. Per farli parlare tra loro, molto semplicemente, si propone di invitare i litiganti a fornire all’altro la propria versione dei fatti.

“L’efficacia di questo passaggio non dipende dalla correttezza della versione che i figli danno del litigio ma è meramente organizzativa. Quello che conta è che si sforzino di parlarsi, di ascoltarsi, di rispettare le diverse posizioni dei fratelli o degli amici e compagni, non che dicano esattamente la verità! Il genitore è responsabile di questo importantissimo atto di reciprocità divergente”.

In genere, una volta che i bambini si sono spiegati, riescono il più delle volte a trovare un accordo, ad “individuare un atto di autoregolazione”. Questo può anche manifestarsi con la rinuncia di uno dei due litiganti, che non deve essere interpretata come una debolezza.

“Spesso la capacità di rinunciare richiede competenze e risorse interiori che invece chi non ha saputo cedere non ha ancora acquisito”.

Resta importante, nel facilitatore, il saper restare a debita distanza e l’umiltà di capire che nella maggior parte dei casi il suo intervento non sarà necessario. Lasciare ai bambini lo spazio di discussione e di confronto, saper dire, quando cercano di mettere in mezzo l’adulto: “questa è una questione che potete risolvere da soli”, dar loro fiducia, permetter loro di sviluppare la capacità di confrontarsi senza caricare la conflittualità di emozioni negative, lasciar loro costruire ricordi positivi legati al litigio (a come si è stati più o meno serenamente capaci di affrontarlo e a come ci si è sentiti dopo averlo attraversato). E’ inoltre fondamentale che il facilitatore sappia capire quando la sua presenza è effettivamente utile; coltivare la consapevolezza che se i bambini sono stati accompagnati adeguatamente, se hanno imparato a litigare, il suo intervento può dissolversi, deve farsi da parte per lasciar il bambino risolvere le sue questioni relazionali con i diretti interessati.

C’è un altro libro dello stesso autore, nel quale andrò certamente a curiosare, che dal titolo si concentra proprio sull’acquisizione di queste competenze Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici.

Nel frattempo, penso sia arrivato il momento di rispolverare Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla comunicazione nonviolenta per l’ascolto attivo e Genitori efficaci. Educare figli responsabili per l’applicazione di questo ascolto nella relazione adulti/bambini.

Particolarmente in questo periodo di confinamento, buon litigio a tutti.

Per un terreno fertile

Perché è così importante imparare a riconoscere le emozioni?

Oggi ho imparato una parola nuova: alessitimia (o alexitimia, dal greco “a-” mancanza, “lexis” parola e “thymos” emozione: letteralmente “non avere le parole per le emozioni“). Costituisce l’incapacità d’identificare, differenziare, verbalizzare e comunicare le proprie emozioni.

In pratica provo un’emozione ma, non sapendola nominare, la subisco.

La dimestichezza con le emozioni è una competenza che potremmo aver acquisito nell’infanzia molto, poco o per nulla.

E vabbè, pazienza, viene da dire.

E invece no.

Questo deficit può essere all’origine, nell’adolescente o nell’adulto, di atti di violenza (incapacità d’autoregolazione, mancanza di empatia), e di dipendenza (impulsività, aggressività, dipendenza da droghe, alcool).

Se non si è capaci di riconoscere le proprie emozioni, non si è capaci di riconoscere nemmeno quelle degli altri. Non si sviluppa l’empatia e senza l’empatia, le competenze per avere una vita sociale e sentimentale soddisfacente.

Generalmente l’incomprensione delle emozioni provate si traduce con vere e proprie scariche emotive (crisi di rabbia, pianti molto intensi), senza essere in grado di capire cosa le scateni, a causa di una debole capacità introspettiva.

Questo è quello che vediamo normalmente nel bambino, il cui sistema nervoso è ancora immaturo per fare le connessioni necessarie al controllo e la comprensione dei suoi stati d’animo.

La mancanza delle parole per… “dire l’emozione” sarebbe responsabile delle risposte violente a situazioni che generano frustrazione, poiché le reazioni violente e impulsive danno una soddisfazione immediata.

Nei bambini rappresenta una tappa, un nodo che va sciolto grazie all’educazione emotiva di cui genitori ed educatori sono responsabili.

Non è possibile crescere dei bambini felici se non li accompagnamo alla conoscenza di sé che, fatalmente, si esprime attraverso il meraviglioso universo emozionale.

E allora come fare?

In fondo le risposte degli studiosi che si sono fatti questa domanda, confermano le mie letture precedenti, che cito nell’articolo “E da un pugno chiuso una carezza nascerà“, nel quale propongo alcuni suggerimenti per affrontare le crisi dei nostri piccoli. In questo articolo, attraverso lo studio di psicologi che si sono concentrati sullo sviluppo della “intelligenza emotiva”, nello specifico, si sottolinea l’importanza d’identificare e far identificare al bambino le emozioni da lui provate, perché questo riconoscimento sta alla base della sua maturazione “emozionale”. J. Gottman, nel suo “Intelligenza emotiva per un figlio. Una guida per i genitori“, lo definisce come un vero e proprio allenamento emotivo che il genitore o l’educatore propone al bambino, attraverso 5 fasi:

1- la presa di coscienza delle emozioni del bambino;

2- il riconoscimento in quell’emozione di un’opportunità d’intimità e d’insegnamento;

3- l’ascolto empatico e la convalida dei sentimenti del bambino;

4- l’accompagnamento del bambino nel trovare le parole per definire le emozioni che sta provando;

5-la determinazione dei limiti e l’esplorazione delle strategie per risolvere il problema in questione.

La base di questo allenamento è certo l’empatia dell’allenatore emotivo. J.Gottman, ci dice:

“Quando i genitori offrono empatia ai loro figli e li aiutano ad affrontare sentimenti negativi come la collera, la tristezza e la paura, gettano tra sé e loro un ponte di lealtà e attaccamento”.

I bambini emotivamente allenati dimostrano la capacità di regolare il proprio stato emotivo, riescono a calmarsi quando sono agitati, a rallentare i battiti del loro cuore più in fretta, sono meno esposti a malattie infettive, riescono a concentrarsi meglio, ad essere più attenti, a relazionarsi meglio con gli altri, riescono meglio a comprendere le altre persone, stabiliscono rapporti di amicizia più solidi con i loro coetanei.

Vale la pena di capirci un po’ di più, no?

Secondo lo psicologo infantile Haim Ginott, non tutti i comportamenti sono accettabili, ma tutti i sentimenti e desideri lo sono.

Per questo essere in grado di entrare in relazione con il mondo interiore dei bambini, connettendosi empaticamente, comprendendoli e mai ridicolizzando o sminuendo le loro emozioni, sono le fondamenta per una crescita emotiva che non mina l’autostima e li accompagna verso la conoscenza di se stessi.

John Gottman individua tre tipologie di genitore, per poi proporci una via più appropriata per una sana educazione alle emozioni:

1- il genitore noncurante, che sminuisce, ignora o sottovaluta le emozioni negative del figlio;

2- il genitore censore, che critica, rimprovera o punisce l’espressione di queste emozioni;

3- il genitore lassista, che accetta le sue emozioni, si dimostra empatico, ma è incapace di proporsi come guida e porre limiti al suo comportamento.

Se riprendiamo, per dare una continuità alle mie ricerche in merito, l’esempio utilizzato nel mio articolo sulla gestione delle crisi (il bambino si mette a piangere perché, nonostante abbia appena mangiato qualche caramella, vuole finire il pacchetto contro il volere della mamma) vediamo come:

a- il genitore noncurante dirà che l’atteggiamento del bambino è ridicolo, che non c’è nessun motivo per frignare e proverà a distrarlo proponendogli di fare un dolce insieme.

b- Il genitore censore rimprovererà il bimbo dicendogli che la mamma ne ha abbastanza del suo comportamento infantile e che se insiste ci prende pure una sculacciata.

c- Il genitore lassista, abbraccerà il bambino, accogliendo la sua collera e la sua tristezza ed entrando in empatia con lui. Gli dirà che è perfettamente normale volere più caramelle. Ma poi si trovererà a corto di idee sul da farsi. Non vorrebbe gridare, né punire, né ricattare il figlio, ma allo stesso tempo fargli finire il pacchetto di caramelle resterebbe un’opzione non praticabile. Forse arriverà alla fine ad un compromesso: ne mangi altre due e poi facciamo qualcos’altro. Ma alla prossima occasione, il problema si ripresenterà probabilmente nello stesso modo.

Il genitore-allenatore, empatizzando col bambino, si comporta come il genitore lassista, ma poi va oltre, proponendosi come guida alla gestione dei suoi sentimenti spiacevoli:

Bambino: Dammi! Ancora! Cattiva!

Mamma: Uh! Ma come sei arrabbiato!

Bambino: Voglio le caramelle, le voglio!

Mamma: Ma ne hai già mangiate tantissime! Sei arrabbiato perché vuoi finire il pacchetto?

Bambino: Sì!

Mamma: Caspita! Penso di capire come ti senti. A volte anche a me capita di volermi mangiare un pacchetto intero di caramelle, ma poi lo so che mi faranno male alla pancia e non posso permettere che questo succeda a te.

Bambino: Ma perché? Io le voglio tantissimo!

Mamma: Vieni qui amore (lo prende in braccio). Mi spiace tesoro ma proprio non è possibile che ti faccia finire il pacchetto perché so che ti farà male. Scommetto che questo ti fa arrabbiare, vero?

Bambino: Sì.

Mamma: E che ti rende anche un po’ triste?

Bambino: Sì.

Mamma: Anch’io sono un po’ triste nel vederti così (lo lascia piangere per un po’, continuando a tenerlo stretto e lasciando che sfoghi le lacrime). Senti che cosa possiamo fare: potremmo cucinare insieme qualcosa di altrettanto buono ma che non ti farà male. Hai qualche idea?

Bambino: Sì, la macedonia!

Mamma: La facciamo insieme?

*   *   *

A prima vista, questa soluzione appare simile a quella del genitore noncurante perché gli offre una soluzione alternativa per distrarlo, ma questo avviene solo dopo delle tappe importanti: il riconoscimento delle emozioni provate, l’accettazione delle stesse e il tempo lasciato per assaporarle, standogli vicino mentre piange. Qui la mamma non cerca di distrarre il bambino dal sentimento, né lo rimprovera per il fatto di provarlo. Le emozioni provate dal bimbo vengono rispettate così come i suoi desideri. Eppure vengono posti i limiti che non si possono valicare. Il bambino ci rimane male, ma è un sentimento che entrambi possono superare insieme. Solo dopo questo percorso, la mamma gli mostra che è possibile andare oltre queste emozioni negative guardando avanti, verso una diversa proposta (ancor meglio se trovata dal piccolo).

Alessitemia. Una parola che non conoscevo e che si rivela preziosissima. Una parola che, da genitori ed educatori, dovremmo scriverla a caratteri cubitali nel nostro quadernetto delle priorità. E’ nostra responsabilità fare in modo che resti solo un paletto-guida dal quale tenerci alla larga.