Per un terreno fertile

Picconate per l’uguale dignità.

Io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo“.
(Epitaffio sulla tomba di Maria Montessori)

Se da una parte trovo che sia un segnale positivo questo interesse crescente per una pedagogia più attenta alle esigenze del bambino, dall’altra sono disturbata da una serie di fattori che vanno dalla strumentalizzazione alla banalizzazione degli insegnamenti che personalità, per me degne di nota, come Montressori e Juul (per citarne solo due) ci hanno lasciato. Pare che oggi venga definita “disciplina dolce“, termine che non mi piace affatto ma che userò qui per essere più rapidamente compresa. Sento spesso frasi del tipo “Mi sono messa alla disciplina dolce ma con mio figlio non funziona!“, “è un metodo che risulta dal sempre crescente lassismo dei genitori moderni“, “una scusa per non entrare in conflitto“, “con me ha funzionato benissimo, mio figlio mi ubbidisce che è un piacere!“.  Mi intristisco, perché mi rendo conto che questo così prezioso interesse per il bambino, parte da presupposti sbagliati e diventa fenomeno di moda, come l’uso che viene fatto dell’educazione alle emozioni, spesso un discorso solo di facciata, superficiale, a cui manca la necessaria riflessione e formazione per farne uno strumento di crescita (dell’adulto come del bambino).

Eppure questa cosiddetta “disciplina dolce” è un’opportunità di salvezza per la nostra società. Montessori già ce lo diceva, che qui v’è la sola possibilità per un avvenire di pace tra i popoli, perché sì, è a loro che l’avvenire appartiene. 

Non si tratta semplicemente di applicare un metodo, ma di destrutturare e abbattere tutti (e dico tutti…) gli schemi nei quali siamo imprigionati da secoli. Schemi che vedono gli esseri umani su una scala gerarchica, guidati dall’autorità, dalla paura, dall’obbedienza. In casa come fuori, le pedine si muovono sulla scacchiera secondo giochi di potere più o meno complessi e articolati.

Si prende il cambiamento dal lato sbagliato, mettendo delle pezze invece di lavorare alla costruzione di quello che M. Montessori chiamava “l’uomo nuovo“.

Certo. Meglio questo che niente?

Penso alla legge promulgata in Francia quest’anno per rendere perseguibile la violenza ordinaria contro i bambini e mi chiedo se sia meglio questo che niente. Ma come è possibile che viviamo ancora in una società che considera la sculacciata come un buon metodo educativo, che ha ottimi risultati e che non ha mai fatto male a nessuno? (Se lo pensate, date una sfogliata, tanto per cominciare, a Alfie Kohn, Amarli senza se e senza ma. Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione). E che cambiamenti profondi societari ci aspettiamo se l’unico modo che si riesce ad immaginare per sradicare certe convinzioni si traduce con una legge?

foto di S. Zeller

Eliminare la violenza “educativa” senza aver scardinato le convinzioni che rendono plausibile questo atteggiamento nei confronti di un altro essere umano, non faranno che sostituire questa violenza (quando davvero una legge basta a sostituirla) fisica in psicologica. 

Finché non pianteremo in noi stessi e nella nostra educazione i semi di una comunità di uguale dignità, in cui bambini e adolescenti siano considerati validi membri, continueremo ad alimentare una società aggressiva. Continueremo a cercare un “metodo che funziona” per farci ubbidire dai bambini (offendendone la loro dignità) invece di concentrarci sulla relazione che vogliamo creare con loro (anche attraversando i conflitti). 

J. Juul propone un modello di leadership condivisa che reputo molto interessante:

In termini di educazione, la leadership condivisa ha come punto di partenza il concetto che sia genitori sia i figli abbiano necessità e limiti diversi, che non siano basati sul consenso dei genitori riguardo ai limiti e alle regole, ma sul principio che ogni individuo deve essere considerato con serietà.  Questa può essere definita una “famiglia post-democratica”, nella quale si dà più importanza al processo decisionale che non alla decisione, e nella quale la minoranza è coinvolta, e non marginalizzata“.

Ora scusate, ma devo andare a prendere il piccone e continuare a lavorare su me stessa, ché c’è tanto da fare e il tempo è poco, così terribilmente poco…


Per un terreno fertile

Capricci, capricci! O campanelli d’allarme?

Continuo la mia escursione attraverso le parole di pensatori che si approcciano al bambino ed al fenomeno pompa-energie comunemente definito come “capriccio”. Combatto già da qualche articolo la loro esistenza (intesa come rifiuto insensato di seguire la logica adulta), accompagnata dai punti di vista di studiosi del capriccio e delle neuroscienze (I capricci non esistono). Oggi, immersa nella magnifica lettura de Il segreto dell’infanzia di Maria Montessori, mi servo della sua ispirazione per aggiungere un mattone alla costruzione di una visione del bambino più attenta al suo mondo interiore. Ho già citato precedentemente l’immaturità cerebrale (in particolare dell’area prefrontale) dei piccoli di uomo, che comportano un’esplosiva difficile gestione delle emozioni e che rendono quindi spettacolari le loro reazioni (Bambini piccoli e scenate in pubblico: io speriamo che me la cavo).

In questa sede, vorrei introdurre il concetto di periodi sensibili. Continua a leggere “Capricci, capricci! O campanelli d’allarme?”

Per un terreno fertile

No a premi e punizioni, lo dicono i toltechi!

Generalmente non rileggo mai due volte lo stesso libro, ma ieri ho trovato abbandonato sull’autobus “I quattro accordi. Guida pratica alla libertà personale. Un libro di saggezza tolteca“. Vista la natura dello scritto, mi sono detta che non doveva trattarsi di un evento fortuito, bensì di un esoterico calcolo del destino che mi mandava un messaggio pregno di senso. Così, vista la cospicua durata del mio tragitto nel traffico, mi sono immersa nella lettura, acconsentendo alle indicazioni del Caso.

Non si tratta di un testo di pedagogia, eppure, con un approccio e parole diverse, è stato curioso ritrovare vari temi di cui ho parlato nei miei articoli precedenti. Primo tra tutti, la dannosità dell’uso delle punizioni e ricompense nell’educazione dei nostri bambini. Nel post “Mamma! Non mi dire che sono bravo!” Perché gli elogi non sono salutari” faccio essenzialmente riferimento al punto di vista di Alfie Kohn, lo approfondisco grazie ai contenuti di Jesper Juul in “Autostima e fiducia in se stessi“, e continuo il percorso di ricerca citando qui Don Miguel Ruiz. Continua a leggere “No a premi e punizioni, lo dicono i toltechi!”

Per un terreno fertile

Il segreto per trascorrere una fantastica giornata in famiglia

È domenica. Fuori c’è il sole. Il profumo delle magnolie e il cinguettio degli uccellini vi fa auspicare che questa sarà una giornata idillica, per tutti i piccoli e grandi membri della  vostra famiglia. Una di quelle giornate che riconciliano col mondo, con la fatica della genitorialità, degli impegni di lavoro, del poco tempo da condividere con le persone che amate.

Oggi avete organizzato una serie di attività divertenti e sorprendenti, un pranzetto da primo premio al concorso di cucina e siete di ottimo umore: ne siete convinte, sarà una fantastica giornata in famiglia.

Peccato, ci dice la psicoterapeuta francese Isabelle Filliozat, nella sua conferenza “Crescere i bambini nella gioia“, svoltasi questo mercoledì a Bruxelles, che ci sia un errore di valutazione di partenza, in questa grande aspettativa domenicale: sarà una fantastica giornata, ma per chi? Continua a leggere “Il segreto per trascorrere una fantastica giornata in famiglia”

Per un terreno fertile

I capricci non esistono

Alla voce “capriccio”, il dizionario Treccani indica:

caprìccio s. m. [dall’ant. caporiccio]. – 1. a. Voglia improvvisa e bizzarra, spesso ostinata anche se di breve durata […]; fare i c., spec. di bambini, fare le bizze.

Cerco allora “bizze”:

biżża1 s. f. [etimo incerto]. – Capriccio stizzoso e di breve durata, senza serio motivo: il bambino fa le b.; non sopporto le sue bizze.

Continua a leggere “I capricci non esistono”

Per un terreno fertile

Bambini piccoli e scenate in pubblico: io speriamo che me la cavo

Ci sono due luoghi in particolare che sono per me, da prima ancora di avere figli, la location perfetta per i più terrificanti film d’horror sulla disfatta della mamma: il supermercato e i trasporti pubblici.

Forse è per questo mio sconsiderato terrore delle scenate disperate di un bambino nei centri commerciali, che mi faceva tanto ridere la pubblicità un tantino di cattivo gusto dei condom. Sì, sì, quella che chiosava un bimbo che si gettava per terra urlando: “VOGLIO LE CARAMMMMMMELLLEEEEEE!!!” con la scritta “Usa i preservativi”. Continua a leggere “Bambini piccoli e scenate in pubblico: io speriamo che me la cavo”

Per un terreno fertile

Perché è così importante imparare a riconoscere le emozioni?

Oggi ho imparato una parola nuova: alessitimia (o alexitimia, dal greco “a-” mancanza, “lexis” parola e “thymos” emozione: letteralmente “non avere le parole per le emozioni“). Costituisce l’incapacità d’identificare, differenziare, verbalizzare e comunicare le proprie emozioni.

In pratica provo un’emozione ma, non sapendola nominare, la subisco.

La dimestichezza con le emozioni è una competenza che potremmo aver acquisito nell’infanzia molto, poco o per nulla.

E vabbè, pazienza, viene da dire.

E invece no.

Questo deficit può essere all’origine, nell’adolescente o nell’adulto, di atti di violenza (incapacità d’autoregolazione, mancanza di empatia), e di dipendenza (impulsività, aggressività, dipendenza da droghe, alcool).

Se non si è capaci di riconoscere le proprie emozioni, non si è capaci di riconoscere nemmeno quelle degli altri. Non si sviluppa l’empatia e senza l’empatia, le competenze per avere una vita sociale e sentimentale soddisfacente.

Generalmente l’incomprensione delle emozioni provate si traduce con vere e proprie scariche emotive (crisi di rabbia, pianti molto intensi), senza essere in grado di capire cosa le scateni, a causa di una debole capacità introspettiva.

Questo è quello che vediamo normalmente nel bambino, il cui sistema nervoso è ancora immaturo per fare le connessioni necessarie al controllo e la comprensione dei suoi stati d’animo.

La mancanza delle parole per… “dire l’emozione” sarebbe responsabile delle risposte violente a situazioni che generano frustrazione, poiché le reazioni violente e impulsive danno una soddisfazione immediata.

Nei bambini rappresenta una tappa, un nodo che va sciolto grazie all’educazione emotiva di cui genitori ed educatori sono responsabili.

Non è possibile crescere dei bambini felici se non li accompagnamo alla conoscenza di sé che, fatalmente, si esprime attraverso il meraviglioso universo emozionale.

E allora come fare?

In fondo le risposte degli studiosi che si sono fatti questa domanda, confermano le mie letture precedenti, che cito nell’articolo “E da un pugno chiuso una carezza nascerà“, nel quale propongo alcuni suggerimenti per affrontare le crisi dei nostri piccoli. In questo articolo, attraverso lo studio di psicologi che si sono concentrati sullo sviluppo della “intelligenza emotiva”, nello specifico, si sottolinea l’importanza d’identificare e far identificare al bambino le emozioni da lui provate, perché questo riconoscimento sta alla base della sua maturazione “emozionale”. J. Gottman, nel suo “Intelligenza emotiva per un figlio. Una guida per i genitori“, lo definisce come un vero e proprio allenamento emotivo che il genitore o l’educatore propone al bambino, attraverso 5 fasi:

1- la presa di coscienza delle emozioni del bambino;

2- il riconoscimento in quell’emozione di un’opportunità d’intimità e d’insegnamento;

3- l’ascolto empatico e la convalida dei sentimenti del bambino;

4- l’accompagnamento del bambino nel trovare le parole per definire le emozioni che sta provando;

5-la determinazione dei limiti e l’esplorazione delle strategie per risolvere il problema in questione.

La base di questo allenamento è certo l’empatia dell’allenatore emotivo. J.Gottman, ci dice:

“Quando i genitori offrono empatia ai loro figli e li aiutano ad affrontare sentimenti negativi come la collera, la tristezza e la paura, gettano tra sé e loro un ponte di lealtà e attaccamento”.

I bambini emotivamente allenati dimostrano la capacità di regolare il proprio stato emotivo, riescono a calmarsi quando sono agitati, a rallentare i battiti del loro cuore più in fretta, sono meno esposti a malattie infettive, riescono a concentrarsi meglio, ad essere più attenti, a relazionarsi meglio con gli altri, riescono meglio a comprendere le altre persone, stabiliscono rapporti di amicizia più solidi con i loro coetanei.

Vale la pena di capirci un po’ di più, no?

Secondo lo psicologo infantile Haim Ginott, non tutti i comportamenti sono accettabili, ma tutti i sentimenti e desideri lo sono.

Per questo essere in grado di entrare in relazione con il mondo interiore dei bambini, connettendosi empaticamente, comprendendoli e mai ridicolizzando o sminuendo le loro emozioni, sono le fondamenta per una crescita emotiva che non mina l’autostima e li accompagna verso la conoscenza di se stessi.

John Gottman individua tre tipologie di genitore, per poi proporci una via più appropriata per una sana educazione alle emozioni:

1- il genitore noncurante, che sminuisce, ignora o sottovaluta le emozioni negative del figlio;

2- il genitore censore, che critica, rimprovera o punisce l’espressione di queste emozioni;

3- il genitore lassista, che accetta le sue emozioni, si dimostra empatico, ma è incapace di proporsi come guida e porre limiti al suo comportamento.

Se riprendiamo, per dare una continuità alle mie ricerche in merito, l’esempio utilizzato nel mio articolo sulla gestione delle crisi (il bambino si mette a piangere perché, nonostante abbia appena mangiato qualche caramella, vuole finire il pacchetto contro il volere della mamma) vediamo come:

a- il genitore noncurante dirà che l’atteggiamento del bambino è ridicolo, che non c’è nessun motivo per frignare e proverà a distrarlo proponendogli di fare un dolce insieme.

b- Il genitore censore rimprovererà il bimbo dicendogli che la mamma ne ha abbastanza del suo comportamento infantile e che se insiste ci prende pure una sculacciata.

c- Il genitore lassista, abbraccerà il bambino, accogliendo la sua collera e la sua tristezza ed entrando in empatia con lui. Gli dirà che è perfettamente normale volere più caramelle. Ma poi si trovererà a corto di idee sul da farsi. Non vorrebbe gridare, né punire, né ricattare il figlio, ma allo stesso tempo fargli finire il pacchetto di caramelle resterebbe un’opzione non praticabile. Forse arriverà alla fine ad un compromesso: ne mangi altre due e poi facciamo qualcos’altro. Ma alla prossima occasione, il problema si ripresenterà probabilmente nello stesso modo.

Il genitore-allenatore, empatizzando col bambino, si comporta come il genitore lassista, ma poi va oltre, proponendosi come guida alla gestione dei suoi sentimenti spiacevoli:

Bambino: Dammi! Ancora! Cattiva!

Mamma: Uh! Ma come sei arrabbiato!

Bambino: Voglio le caramelle, le voglio!

Mamma: Ma ne hai già mangiate tantissime! Sei arrabbiato perché vuoi finire il pacchetto?

Bambino: Sì!

Mamma: Caspita! Penso di capire come ti senti. A volte anche a me capita di volermi mangiare un pacchetto intero di caramelle, ma poi lo so che mi faranno male alla pancia e non posso permettere che questo succeda a te.

Bambino: Ma perché? Io le voglio tantissimo!

Mamma: Vieni qui amore (lo prende in braccio). Mi spiace tesoro ma proprio non è possibile che ti faccia finire il pacchetto perché so che ti farà male. Scommetto che questo ti fa arrabbiare, vero?

Bambino: Sì.

Mamma: E che ti rende anche un po’ triste?

Bambino: Sì.

Mamma: Anch’io sono un po’ triste nel vederti così (lo lascia piangere per un po’, continuando a tenerlo stretto e lasciando che sfoghi le lacrime). Senti che cosa possiamo fare: potremmo cucinare insieme qualcosa di altrettanto buono ma che non ti farà male. Hai qualche idea?

Bambino: Sì, la macedonia!

Mamma: La facciamo insieme?

*   *   *

A prima vista, questa soluzione appare simile a quella del genitore noncurante perché gli offre una soluzione alternativa per distrarlo, ma questo avviene solo dopo delle tappe importanti: il riconoscimento delle emozioni provate, l’accettazione delle stesse e il tempo lasciato per assaporarle, standogli vicino mentre piange. Qui la mamma non cerca di distrarre il bambino dal sentimento, né lo rimprovera per il fatto di provarlo. Le emozioni provate dal bimbo vengono rispettate così come i suoi desideri. Eppure vengono posti i limiti che non si possono valicare. Il bambino ci rimane male, ma è un sentimento che entrambi possono superare insieme. Solo dopo questo percorso, la mamma gli mostra che è possibile andare oltre queste emozioni negative guardando avanti, verso una diversa proposta (ancor meglio se trovata dal piccolo).

Alessitemia. Una parola che non conoscevo e che si rivela preziosissima. Una parola che, da genitori ed educatori, dovremmo scriverla a caratteri cubitali nel nostro quadernetto delle priorità. E’ nostra responsabilità fare in modo che resti solo un paletto-guida dal quale tenerci alla larga.

Per un terreno fertile

E da un pugno chiuso una carezza nascerà

Sì sì, mi sento dire: “A volte la mano prude“.

Capelli arruffati, acufene derivante dai gridi acuti del pupetto, tic all’occhio come quello dello scoiattolino dell’Era Glaciale, vestiti stropicciati dai tentativi di calmarlo. Dov’è finito il tuo irresistibile aplomb? Il tuo stile inconfondibile? Il tuo sguardo calmo e misterioso? Maria Montessori diceva che i bambini sono i nostri Maestri. Questi cosetti che troviamo tanto dipendenti dalla nostra infinita saggezza ed esperienza di vita verrebbero al mondo per obbligarci a confrontarci con i nostri limiti e diventare migliori.

Oggi è proprio il giorno in cui il tuo piccolo prof. ti invita a esplorare nuove possibilità e provare a trasformare quel pugno chiuso che prude tanto e che tra-un-po’-guarda-se-non-la-smetti-diventa-un-bel-ceffone, in un’opportunità di carezza.

Ma come?

Partirei dalle tre tappe di Céline Alvarez. Avete un bimbo piccolo in preda ad una crisi? Inutile provare a ragionarci: la sua corteccia prefrontale, sede delle emozioni, non è ancora sviluppata e in questo momento là dentro c’è un putiferio, folletti fosforescenti che ballano l’alligalli e vulcani in piena esplosione. La prima azione da compiere è compatirlo, consolarlo, prenderlo tra le braccia, confortarlo (“Ti capisco!“, implicitamente “Ti amo e sto con te anche se non sono d’accordo con quello che hai fatto“). Qualsiasi altra azione rischierebbe di peggiorare la situazione. Passata questa delicata fase, il bambino si calma, è il momento di nominare le emozioni che ha provato (“sei tanto arrabbiato?” – da evitare il sottotesto: “perché vorresti strafogarti il pacchetto di caramelline gommose di gelatina di topo di fogna?”). La terza fase è quella della risoluzione del problema, magari proponendogli delle alternative o cercando di trovarle insieme (se vi sputa in faccia a mo’ di mitragliatrice le uvette che gli  avete proposto, mantenete la calma e ricordatevi che il sentiero del successo è cosparso di cacche di pecora…). In questo modo, se dovesse funzionare, il bambino si senterà capito, prenderà confidenza con le sue stesse emozioni – queste sconosciute – e si sentirà rispettato.

Il Dott. Haim Ginott, seguendo le stesse linee guida, propone soluzioni per fissare limiti invitando alla cooperazione. Il principio di base è di utilizzare un linguaggio positivo. In questo caso, l’ordine delle proposte non è per forza cronologico come invece per le tre tappe di Alvarez:

  • Riconoscere e riformulare il desiderio del bambino (“Sembri proprio arrabbiato con mamma“)
  • Ricordare le regole (“Ti ricordi che abbiamo stabilito non più di X caramelline, vero?”)
  • Cambiare la direzione dell’azione o proporgli soluzioni (“ti va di cucinare una superciambella insieme?“, “usciamo a fare un giro?“)
  • Avere compassione per la frustrazione del bambino (“Ti sarebbe piaciuto tanto mangiare ancora caramelline! Come lo capisco, piacciono anche a me tanto! Se non facessero così male! Hai voglia di dirmi o disegnarmi quanto sei arrabbiato?“).

Uno strumento che può risultare estremamente prezioso, e non solo nel bel mezzo di una crisi, è senza dubbio l’ascolto empatico o attivo.

Il principio è quello di indossare, come direbbe Rosenberg, nel suo Il linguaggio giraffa. Una comunicazione collegata alla vita, le orecchie da giraffa (l’animale chgiraffa_cuore_libro2e ha il cuore più grande di tutti), ossia ascoltare senza pregiudizi, in modo amorevole, per fare in modo che il bambino si senta capito, confortato e non sminuito nel suo dispiacere e in questo modo sviluppi l’autostima necessaria per trovare da solo una soluzione. Vediamo un esempio calcato sulla nostra situazione citata precedentemente:

“Bambino: Dammi! Ancora! Cattiva!

Mamma: Sei arrabbiato perché vorresti ancora caramelle?

Bambino: Sì, non mi fai mai finire il pacchetto!

Mamma: Ti piacerebbe mangiarne a sazietà e io ti impedisco di farlo perché ho paura che ti faranno venire il mal di pancia…

Bambino: Sì!

Mamma: E come facciamo?

Bambino: Io le mangio e tu non guardi!

Mamma: Ma poi avrai comunque male al pancino. Ti ricordi l’ultima volta che ti ha fatto male, quando eravamo in montagna?

Bambino: Sì…

Mamma: Ci sono altre cose che ti farebbe piacere mangiare e che non ti facciano male al pancino?

Bambino: Sì, la macedonia!

Mamma: La facciamo insieme?

Qualsiasi sia il percorso che scegliamo per trasformare il nostro pugno in una carezza non scordiamoci che viviamo un’occasione imperdibile per imparare qualcosa e posare un mattone nella costruzione della nostra relazione col bambino, armiamoci di pazienza, indossiamo le orecchie da giraffa e se il primo tentativo non va come vorremmo, soprattutto, non arrendiamoci.

 

Per un terreno fertile

Il culetto è mio, è mio perciò la sculacciata, no no no

Comincio oggi una serie di articoli che vertono sul tema delledito rimprovero woody punizioni e ricompense. In che modo possono danneggiare il piacere di imparare, inibendo lo stimolo naturale della curiosità?

Doveroso iniziare con la Punizione delle Punizioni, il grande archetipo: la sculacciata. Perché no?  Perché no, più in generale, all’uso della violenza (seppur “minima”) per imporre la propria autorità e insegnare a discernere tra il bene e il male?

Ce ne parla in modo molto chiaro Olivier Maurel nel suo La sculacciata. Perché farne a meno. Domande e riflessioni: “Solo qualche decina d’anni fa, si potevano ancora avere dubbi sulla nocività delle punizioni corporee inflitte ai bambini. Oggi non è più così. Le più recenti ricerche sul funzionamento del cervello dimostrano indiscutibilmente che le botte ricevute causano nel bambino lesioni e ostacolano il suo sviluppo“.

Senza entrare nello specifico di tali ricerche sugli effetti della sculacciata sul cervello del bambino (interessanti ad esempio gli studi dello psichiatra francese Muriel Salmona), vediamo perché la sculacciata proprio no no no:

  • La sculacciata è un’ammissione di debolezza, mostra al bambino che le sue provocazioni funzionano e che l’adulto non è stato in grado di controllarsi.
  • La sculacciata rende la violenza banale, sottintendendo che picchiare sia il solo modo per gestire un conflitto. Questa regola, ben assimilata, sarà con molta probabilità applicata a sua volta dal bambino, che sceglierà comportamenti violenti per la risoluzione dei problemi. Avete già vissuto il paradosso di dare una sculacciata ad un bambino che sta picchiando un altro bambino dicendogli che non si usa la violenza?
  • La sculacciata è umiliante: il bambino non si sente amato. Ciò crea inevitabilmente un circolo vizioso, spingendolo verso atteggiamenti sempre più negativi che gli causeranno altre sculacciate e così via. La violenza, non è una novità, chiama violenza, da entrambe le parti.
  • La sculacciata mina l’autostima del bambino che non si sente amato e lo priva del più potente motore di cui dispone per la sua realizzazione personale.
  • La sculacciata è inefficace perché si fonda sulla paura, non sulla comprensione dell’errore. Anche quando l’adulto ha ottenuto ciò che voleva, la lezione non è stata capita, le cause del conflitto sono rimaste irrisolte e la stessa situazione si ripresenterà con tutta probabilità nella prossima crisi.
  • La sculacciata confonde il bambino. Soprattutto quando è accompagnata da frasi del tipo “è per il tuo bene”. Alice Miller ci dice nel suo Dramma del Bambino Dotato: “Quando si colpisce un bambino con la pretesa di formare il suo carattere o per amore, si agisce in modo molto ipocrita (…). In questo modo impara che la violenza contro i deboli è legittima, la rivolta contro i forti vietata. Impara che bisogna mentire ed essere ipocriti, proprio da coloro che pretendono insegnare la verità e la tolleranza”. 
  • La sculacciata è una forma di violenza contro un bambino. E questo basta di per sé per essere naturalmente condannabile.

E se la situazione ci sfugge letteralmente di mano e parte la sculacciata, la soluzione resta tagliarci la mano o fustigarci ripetutamente urlando molteplici “Mea Culpa!”?! Olivier Maurel consiglia piuttosto di spiegarsi col bambino, una volta la crisi passata. Un modo per provare al bambino che la comunicazione resta il modo più efficace per superare gli ostacoli, insieme.