Per un terreno fertile

Il segreto per trascorrere una fantastica giornata in famiglia

È domenica. Fuori c’è il sole. Il profumo delle magnolie e il cinguettio degli uccellini vi fa auspicare che questa sarà una giornata idillica, per tutti i piccoli e grandi membri della  vostra famiglia. Una di quelle giornate che riconciliano col mondo, con la fatica della genitorialità, degli impegni di lavoro, del poco tempo da condividere con le persone che amate.

Oggi avete organizzato una serie di attività divertenti e sorprendenti, un pranzetto da primo premio al concorso di cucina e siete di ottimo umore: ne siete convinte, sarà una fantastica giornata in famiglia.

Peccato, ci dice la psicoterapeuta francese Isabelle Filliozat, nella sua conferenza “Crescere i bambini nella gioia“, svoltasi questo mercoledì a Bruxelles, che ci sia un errore di valutazione di partenza, in questa grande aspettativa domenicale: sarà una fantastica giornata, ma per chi? Continua a leggere “Il segreto per trascorrere una fantastica giornata in famiglia”

Per un terreno fertile

Bambini piccoli e scenate in pubblico: io speriamo che me la cavo

Ci sono due luoghi in particolare che sono per me, da prima ancora di avere figli, la location perfetta per i più terrificanti film d’horror sulla disfatta della mamma: il supermercato e i trasporti pubblici.

Forse è per questo mio sconsiderato terrore delle scenate disperate di un bambino nei centri commerciali, che mi faceva tanto ridere la pubblicità un tantino di cattivo gusto dei condom. Sì, sì, quella che chiosava un bimbo che si gettava per terra urlando: “VOGLIO LE CARAMMMMMMELLLEEEEEE!!!” con la scritta “Usa i preservativi”. Continua a leggere “Bambini piccoli e scenate in pubblico: io speriamo che me la cavo”

Semi di meraviglia: i cantastorie

Prologo di una lampadina. Storiella.

C’erano una montagna di fagiolini da mondare. Quale migliore occasione per la mamma del mio compagno per narrarmi una storia che gli raccontò forse un suo zio.
Mentre le mie dita pulivano i fagiolini, il mio bambino interiore, intuendo l’inizio di una storia, si era immediatamente fiondato a sedersi in terra, intorno al caminetto immaginario, con gli occhi e le orecchie grandi grandi.

Il piccolo Edison tornò un giorno da scuola con una busta chiusa da consegnare alla mamma.
“Mamma”, disse il piccolo Edison inquieto, “la maestra mi ha detto di darti questa lettera“.
La mamma tirò fuori il naso dai fornelli, si andò a lavare le mani, inforcò gli occhiali e aprì la lettera. La lesse una volta silenziosamente, seriamente, sommessamente. Poi alzò lo sguardo verso il figlio, che attendeva fremendo e un po’ tremando, intuendo la gravità del momento.
La mamma rigettò gli occhi nella lettera e cominciò a leggere ad alta voce:
Cara la mia Sig.ra Edison,
Mi rammarica doverLe comunicare quanto segue, ma non siamo purtroppo nelle condizioni di agire diversamente.
Suo figlio è sveglio, intelligente, sensibile. Sembra strano doverlo dire così, ma troppo sveglio, intelligente e sensibile perché io possa dargli il seguito che merita senza trascurare i suoi compagni. Le chiedo quindi di tenerlo a casa per potergli fornire un’istruzione adeguata alle sue capacità“.
La mamma chiuse quindi lentamente la lettera e lentamente la ripose in un cassetto della madia.
Il piccolo Edison stupito dal contenuto, tirò un sospiro di sollievo. La mamma lo abbracciò e andarono a mangiare la minestra.
Gli studi a casa furono all’altezza delle sue capacità. Da grande diventò uno scienziato ed inventò la lampadina che rivoluzionò la vita degli uomini e donne di questa Terra.
Un giorno, quando il piccolo Edison ormai era diventato grande, la mamma morì. Mettendo a posto le sue cose, il figlio aprì la madia e vi trovò la lettera della sua maestra. Con un po’ di nostalgia la aprì per rileggerla:
Signora Edison,
mi rammarica doverLe comunicare quanto segue, ma non siamo purtroppo nelle condizioni di agire diversamente: il quoziente intellettivo di suo figlio difetta. Non abbiamo insegnanti speciali a sostegno e non possiamo rallentare il programma per adeguarci alle sue carenze. Siamo spiacenti di doverLe comunicare che non possiamo più accoglierlo nella nostra istituzione. Cordiali saluti.”
Un brivido lo attraversò. Una corrente d’aria che veniva dagli infissi chiusi male, o da dentro di lui. E poi subito dopo il calore del ricordo della mamma.
Sorrise e mormorò qualcosa. Forse, un “grazie, mamma“.

Fiabe, favole, miti e leggende. Non si va a cercare se siano veri o meno, ma ci si lascia attraversare dal racconto e dall’insegnamento che si portano dietro.
O meglio, si prendono per vere, perché come dice Calvino, in fondo lo sono:

“Io credo questo: le fiabe sono vere, sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna”.

Dalle fiabe, favole, miti e leggende ci si lascia cullare, a volte spaventare. Entrano in noi e insidiano domande, quesiti, dubbi, che sono alla base dell’imparare. Sciolgono alcuni nodi e altri li lasciano da sciogliere a chi li ascolta.
Educano, prima di tutto all’ascolto. Svegliano l’immaginario, più di ogni film d’animazione. Sono stati per secoli la nostra memoria.
Oggi svaniscono, sempre più malamente.
E se fosse un po’ da cercarsi anche qui, la perdita della memoria sociale e di certi valori che si avverte sempre più nelle nuove generazioni “postmoderne”?

 

Libri meravigliosi

I diritti dell’amico immaginario

Calvin è un bambino disobbediente, un po’ crudele, un po’ affettuoso, con eccessi di pigrizia o iperattività, iper creativo, iper curioso, ipersensibile, pieno di domande, di voglia di marachella. Insomma, un bambino normale.
Un bambino con un amico immaginario molto speciale, un pupazzo che in realtà è una bellissima tigre, talvolta un po’ saggia, talvolta completamente allo sbaraglio del gioco col suo inseparabile amico in carne ed ossa.
imageLa genialità della scrittura di questo fumetto sta nel fatto che, come succede nella mente dei bambini, realismo e surrealismo si confondono. I bambini sanno che il loro amico immaginario non esiste, ma questo non sminuisce in nulla la constatazione che esista davvero, che davvero giochi e parli con loro. Così il mostro che è sotto il letto sbava veramente. Le ferite che ogni tanto la tigre Hobbes gli infligge con le unghie quando si azzuffano, esistono davvero, anche se i genitori continuano a vedere un pupazzo di pezza. Insieme, vivono le più divertenti delle avventure, criticano politicamente la gestione del mondo degli adulti con osservazioni disarmanti che meritano di farci arrossire di vergogna, guardano cieli stellati ponendosi profondi quesiti filosofici e, soprattutto, rendono impossibile la vita di due bravi genitori che, però, non colgono la magia del delicato universo di questo ragazzino. Per noi lettori, semplicemente straordinario. Per i suoi genitori, un’incontenibile, certo a volte adorabile, peste.
È un invito ad abbassarsi all’altezza dei nostri bambini, un invito ad approfondire le loro paure, le loro richieste di aiuto, curiosità, problematiche, gioie.
E, soprattutto, un invito a darsi la possibilità di scivolare anche noi in quel modo di vedere il mondo, caleidoscopico, avventuroso, mai insignificante.
Se dovessi partire su Marte con un solo libro, probabilmente mi porterei un album di Calvin & Hobbes.

Devo dire che poi sono un po’ invidiosa del suo amico immaginario. Il mio, un ometto verde che nei numerosi viaggi in auto fatti nella mia infanzia, correva di fianco alla macchina operando incredibili acrobazie, non mi ha mai rivolto la parola. Forse non seguiva neanche me. Magari era l’amico immaginario di un altro. Tanto che un giorno, lo giuro, di punto in bianco, l’ho visto allontanarsi trasversale all’autostrada, ha fatto qualche piroetta ed è sparito dietro una collina. Per sempre. Non si è girato, non mi ha salutato. Mi ha reso molto triste e nei miei viaggi successivi mi sono sentita molto sola. Lo sapevo che mica potevo dire ai miei genitori che se n’era andato, che mi avrebbero presa per pazza. Come non potevo dire loro che Tobia, il nostro cane, non era proprio proprio morto, che ogni tanto veniva a trovarmi e passeggiavamo un po’ insieme…
Ogni tanto guardo ancora la linea delle colline, per vedere se magari riappare, l’omino verde, almeno per scusarsi e congedarsi come si deve.

Credo che sia giusto essere discreti, da adulti, con gli amici immaginari dei nostri bimbi. Non ridere di loro, assecondarli se chiedono di aggiungere un posto a tavola, non far finta di vederli, che mica sono scemi, lo sanno che non ci sono, ma accompagnarli nella loro rabbia, se hanno litigato e nella loro tristezza se se ne sono andati. Perché le emozioni che provano, quelle, sono proprio vere.

E il vostro amico immaginario, è ancora lì con voi o se ne è andato?

Per un terreno fertile

E da un pugno chiuso una carezza nascerà

Sì sì, mi sento dire: “A volte la mano prude“.

Capelli arruffati, acufene derivante dai gridi acuti del pupetto, tic all’occhio come quello dello scoiattolino dell’Era Glaciale, vestiti stropicciati dai tentativi di calmarlo. Dov’è finito il tuo irresistibile aplomb? Il tuo stile inconfondibile? Il tuo sguardo calmo e misterioso? Maria Montessori diceva che i bambini sono i nostri Maestri. Questi cosetti che troviamo tanto dipendenti dalla nostra infinita saggezza ed esperienza di vita verrebbero al mondo per obbligarci a confrontarci con i nostri limiti e diventare migliori.

Oggi è proprio il giorno in cui il tuo piccolo prof. ti invita a esplorare nuove possibilità e provare a trasformare quel pugno chiuso che prude tanto e che tra-un-po’-guarda-se-non-la-smetti-diventa-un-bel-ceffone, in un’opportunità di carezza.

Ma come?

Partirei dalle tre tappe di Céline Alvarez. Avete un bimbo piccolo in preda ad una crisi? Inutile provare a ragionarci: la sua corteccia prefrontale, sede delle emozioni, non è ancora sviluppata e in questo momento là dentro c’è un putiferio, folletti fosforescenti che ballano l’alligalli e vulcani in piena esplosione. La prima azione da compiere è compatirlo, consolarlo, prenderlo tra le braccia, confortarlo (“Ti capisco!“, implicitamente “Ti amo e sto con te anche se non sono d’accordo con quello che hai fatto“). Qualsiasi altra azione rischierebbe di peggiorare la situazione. Passata questa delicata fase, il bambino si calma, è il momento di nominare le emozioni che ha provato (“sei tanto arrabbiato?” – da evitare il sottotesto: “perché vorresti strafogarti il pacchetto di caramelline gommose di gelatina di topo di fogna?”). La terza fase è quella della risoluzione del problema, magari proponendogli delle alternative o cercando di trovarle insieme (se vi sputa in faccia a mo’ di mitragliatrice le uvette che gli  avete proposto, mantenete la calma e ricordatevi che il sentiero del successo è cosparso di cacche di pecora…). In questo modo, se dovesse funzionare, il bambino si senterà capito, prenderà confidenza con le sue stesse emozioni – queste sconosciute – e si sentirà rispettato.

Il Dott. Haim Ginott, seguendo le stesse linee guida, propone soluzioni per fissare limiti invitando alla cooperazione. Il principio di base è di utilizzare un linguaggio positivo. In questo caso, l’ordine delle proposte non è per forza cronologico come invece per le tre tappe di Alvarez:

  • Riconoscere e riformulare il desiderio del bambino (“Sembri proprio arrabbiato con mamma“)
  • Ricordare le regole (“Ti ricordi che abbiamo stabilito non più di X caramelline, vero?”)
  • Cambiare la direzione dell’azione o proporgli soluzioni (“ti va di cucinare una superciambella insieme?“, “usciamo a fare un giro?“)
  • Avere compassione per la frustrazione del bambino (“Ti sarebbe piaciuto tanto mangiare ancora caramelline! Come lo capisco, piacciono anche a me tanto! Se non facessero così male! Hai voglia di dirmi o disegnarmi quanto sei arrabbiato?“).

Uno strumento che può risultare estremamente prezioso, e non solo nel bel mezzo di una crisi, è senza dubbio l’ascolto empatico o attivo.

Il principio è quello di indossare, come direbbe Rosenberg, nel suo Il linguaggio giraffa. Una comunicazione collegata alla vita, le orecchie da giraffa (l’animale chgiraffa_cuore_libro2e ha il cuore più grande di tutti), ossia ascoltare senza pregiudizi, in modo amorevole, per fare in modo che il bambino si senta capito, confortato e non sminuito nel suo dispiacere e in questo modo sviluppi l’autostima necessaria per trovare da solo una soluzione. Vediamo un esempio calcato sulla nostra situazione citata precedentemente:

“Bambino: Dammi! Ancora! Cattiva!

Mamma: Sei arrabbiato perché vorresti ancora caramelle?

Bambino: Sì, non mi fai mai finire il pacchetto!

Mamma: Ti piacerebbe mangiarne a sazietà e io ti impedisco di farlo perché ho paura che ti faranno venire il mal di pancia…

Bambino: Sì!

Mamma: E come facciamo?

Bambino: Io le mangio e tu non guardi!

Mamma: Ma poi avrai comunque male al pancino. Ti ricordi l’ultima volta che ti ha fatto male, quando eravamo in montagna?

Bambino: Sì…

Mamma: Ci sono altre cose che ti farebbe piacere mangiare e che non ti facciano male al pancino?

Bambino: Sì, la macedonia!

Mamma: La facciamo insieme?

Qualsiasi sia il percorso che scegliamo per trasformare il nostro pugno in una carezza non scordiamoci che viviamo un’occasione imperdibile per imparare qualcosa e posare un mattone nella costruzione della nostra relazione col bambino, armiamoci di pazienza, indossiamo le orecchie da giraffa e se il primo tentativo non va come vorremmo, soprattutto, non arrendiamoci.