Semi di meraviglia: parole al vento

“Poi mi butti giù, come fossi una bambola”… Bambini e disturbi della personalità.

Alla fine del primo giorno di laboratorio di “improvvisazione, scrittura di scena e recitazione davanti ad una telecamera” la mamma di F. mi prende da parte e mi chiede: “Come è andata oggi?”.
La giornata si era svolta in modo molto sereno, c’erano ancora alcuni nodi da sciogliere affinché i ragazzi si lasciassero andare alle mie proposte, ma tutto sommato per un primo giorno potevo ritenermi soddisfatta.
Ma la mamma incalza: “E con mio figlio? È andata tutto bene con mio figlio?”
Io: “Sì, signora, tutto bene”
Lei: “Sicura, sì?”
io: “Sissignora, è un ragazzo vivace ma ce la siamo cavata”
Lei: “No perché, se vuole, gli posso dare le medicine”
io: “…”
Lei: “Ultimamente volevamo evitare di dargliele ma se dà fastidio gliele do”.
Io: “Non c’è bisogno, davvero, va bene così”.

In questo modo ho scoperto che F. non era vivace ma malato.
Lungi da me giudicare la mamma, che ha fatto le sue scelte conoscendo il figlio, la sua cartella clinica e che lo ama certamente più di chiunque al mondo.
Ma nel mio lavoro, la cui materia prima è la personalità dei partecipanti, F. non era più difficile da gestire rispetto ad un coetaneo magari invece molto timido, che rifiutasse di alzarsi dalla sedia, anzi.
imageF. era irruento, logorroico quanto lo posso essere io, onnipresente, ma mai aggressivo o irrispettoso nei confronti del gruppo.

Questo fatto mi ha dato e mi dà tanto da riflettere.

Sono sempre più circondata da bambini affetti da malattie della personalità, incapacità di concentrarsi, iperattivi, e tant’altro (scusate l’imprecisione, ma dimentico ogni volta le sigle che vengono loro attribuite)… E prendono medicine per essere calmati.
A me questa cosa fa paura.

Verso la fine della settimana F. è venuto al laboratorio spento. Sembrava molto stanco. Gli ho chiesto un po’ a bassa voce se avesse dormito male, ha risposto, davanti agli altri, che aveva preso le medicine. Ne è nata una discussione con tutti i ragazzi, con naturalezza, che è finita, grazie alla leggerezza adolescenziale (di F. In primis), in grandi risate.

Senza pretesa di giudizio, mi si permetta la riflessione: in tutti i casi che incontriamo giorno dopo giorno, non c’è davvero alternativa al sedarli? Non potrebbe essere la conseguenza di troppo tempo chiusi, troppe attività sedentarie e solitarie, senza poter esprimere le proprie energie e sensibilità? Troppo poco tempo e pazienza da dedicare a bambini che richiedono più attenzioni? Dice lo stracitato proverbio africano che, per educare un bambino, ci vuole un villaggio (e io lo intendo non solo a a livello umano-relazionale, ma anche spazio-temporale): forse siamo troppo soli nel crescere oggi i nostri bambini, dentro spazi cittadini troppo ristretti?

Ne Il miracolo di essere bambini. L’idea di infanzia, Henning Köhler sembra condividere le mie perplessità:

“Al giorno d’oggi è molto diffuso il “vizio” di giudicare i bambini che non si comportano o sviluppano come ci si aspetta e di attribuire loro certi concetti diagnostici che invece riguardano malattie. Bisogna tenere conto di questa tendenza attuale e guardarla molto attentamente; penso che tutte le persone che cercano nuove prospettive nel campo della pedagogia e della terapia dovrebbero opporre resistenza. Quest’attuale tendenza è sconvolgente e allarmante! Il motto è “patologizzazione” del bambino singolare che non corrisponde alla media. Siccome sempre più bambini non si comportano secondo la norma, secondo il punto di vista della psicologia dello sviluppo (qui le cause possono essere molteplici), sempre più bambini vengono trattati come “casi patologici” ed essi debbono affrontare il loro percorso di vita con l’impronta del “disturbo della personalità”. Non è certo un aspetto trascurabile”.

imageHo un po’ di rabbia dentro, come una nebbia, senza destinatario. E tanta compassione. Possibile, che la sola risposta e aiuto che riusciamo a dare alla mamma di F., siano una scatola di medicine? Io credo che dobbiamo davvero ricominciare, interrogarci, riscrivere proprio la società.
Da qui.
Da quella preziosa (?) diabolica scatola di medicine.
E non ditemi che è un’utopia. Che mi fate arrabbiare.
Adesso ho anch’io un figlio.

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Semi di meraviglia: parole al vento

“Sì, vabbè, ma da uno a dieci, quanto mi dai?”. Bocciature e voti a scuola.

Non credo nei banchi di scuola che anchilosano i corpi fatti di movimento dei bambini;
imageNon credo nei voti, né positivi né negativi, che riducono il bambino ad una griglia numerica inibendo le potenzialità individuali; spezzando l’autostima; riducendo il piacere di imparare, al desiderio di una ricompensa o alla paura di una punizione; creando una società fondata sulla concorrenza e competizione (se c’è un migliore, c’è un peggiore);
Non credo nei programmi che non tengono conto della realtà, dei diversi tempi di apprendimento, delle reali esigenze e sete di conoscenza del bambino e del posto che il bambino occuperà nella società di domani;
imageNon credo nello studio delle materie prese individualmente, che chiudono il sapere in compartimenti stagni invece di valorizzare le infinite connessioni tra le scienze, tra le cose, che ci insegnano che siamo parte del tutto.
Sarei tentata di dire che non credo neanche nella scuola, ma da una parte sono consapevole che bisognerebbe rivoluzionare tutto il sistema, che, detta in modo riduttivo, bisognerebbe smettere di fondare (un esempio tra tanti) la nostra repubblica sul lavoro (e quale lavoro?) per incentrarla sull’essere umano, e dall’altra, so che ci sono delle buone alternative, già operative nel mondo, che tengono conto di tutti i “non credo” di cui sopra.
Penso all’asilo nel bosco, agli approcci pedagogici libertari, alla pedagogia Montessori, al sistema scolastico finlandese.
Proprio in Finlandia – per chi ama i migliori – già campione nella classifica internazionale Pisa, è in atto una riforma che prenderà ufficialmente inizio nel 2020, che prevede un radicale cambio di paradigma: via le materie, gli insegnanti diventeranno dei facilitatori per un apprendimento pluridisciplinare che vedrà incontrarsi, nello stesso momento, i saperi propedeutici ai temi trattati.
Questa nuova legge che crea tanta ansia e che abolisce le bocciature alle medie e alle elementari non è che una goccia nel mare, verso una scuola che diventi un bel posto dove imparare. Peccato che si tocchi la superficie senza intaccare il fondo del sistema. Peccato che si continua a insegnare in modo frontale, con bambini in esubero possibilmente inchiodati alle sedie. Togliere la bocciatura (senza tra l’altro eliminare i voti) è solo un modo di privare gli insegnanti di un’arma nella guerra del “devi imparare” (quello che dico io, come e quando lo dico io) tra allievi e professori.
Niente di nuovo, né di davvero buono dunque, per quegli insegnanti che nonostante gli infiniti ostacoli imposti dalla cultura imperante, riescono ugualmente a fare il loro mestiere con tanto amore da trapelare negli allievi, da trasmettere al di là delle righe dei quaderni, la bellezza rotonda dell’imparare cose nuove, dell’esplorare le possibilità di quella conoscenza non pedante che “li renderà liberi”.

Fa ancora eco in me il bambino che mi porta alla fine del corso di teatro un disegno. Con un gran sorriso me lo porge e mi dice: “È per te”
Io: “Grazie, che bello, questa sono io!”
Lui: “Da uno a dieci, quanto mi dai?”
Io: “…”
Io: “È un regalo, un gesto bellissimo, è un gesto di gentilezza, d’amore, come si fa a quantificare un sentimento?”
Lui: “Sì vabbè, però, quanto mi dai da uno a dieci?”