Nelle sue conferenze, che trovo sempre molto emozionanti, prende il tempo di spiegare i processi di apprendimento, come le emozioni siano imprescindibilmente legate ad esso (se imparo nella paura, ogni volta che riattivo l’informazione appresa, riattivo anche la paura che li ha impressi nella memoria) e come, quindi, alla base dell’apprendimento ci debba essere la gioia.

La curiosità epistemica, quel bisogno universale dell’essere umano di imparare esplorando l’ambiente, quella fame di sapere che nel bambino si esplicita con il moltiplicarsi di perché e dov’è e come si fa, è la chiave per un apprendimento auto-diretto, che si genera da sé. La capacità di alimentare questa fiamma, lasciando aprirsi una dopo l’altra le finestre che ogni risposta sblocca, ogni “perché?” che contiene un altro “perché?” e un altro ancora, come specchi negli specchi, dovrebbe essere tra le competenze primarie di chiunque si occupi di educazione.
Un insegnamento che si fonda sulla motivazione esterna non basta, perché necessita che la spinta venga fuori da sé, etero-diretta. Un approccio che non suscita curiosità epistemica, che dà risposte chiuse (è così, punto), senza generare altre domande, richiede, dopo ogni punto, la faticosa necessità di rimettere in moto un processo dinamico, il desiderio di apprendimento. La responsabilità di questa costante mobilizzazione motivazionale viene scaricata quasi totalmente sull’insegnante.
Quando invece il processo di apprendimento si basa sulla motivazione interna, il maestro riveste un ruolo a mio avviso molto più entusiasmante: quello della guida, dell’accompagnatore, del compagno di viaggio, attento a mantenere un buon equilibrio tra difficoltà e possibilità di riuscita, che sa puntare la torcia verso sentieri inesplorati, sa come generare domande e come permettere all’allievo (individualmente e collettivamente) di trovare soluzioni e risposte personali.